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Giordano Bruno
Spaccio de la bestia trionfante
Epist. esplicatoria
1
2 Dial. 1, parte 1 Interlocutori: Sofia, Saulino, Mercurio. Prima parte del
primo dialogo.
1 Dial. 1, parte 2 Seconda parte del primo Dialog
1 Dial. 1, parte 3 Terza parte del primo Dialogo.
1 Dial. 2, parte 1 Prima parte del secondo dialogo. 1 Dial. 2, parte 2 Seconda parte del secondo dialogo.
1 Dial. 2, parte 3 Terza parte del secondo dialogo.
1 Dial. 3, parte 1 Prima parte del terzo dialogo.
1 Dial. 3, parte 2 Seconda parte del terzo dialogo.
1 Dial. 3, parte 3 Terza parte del terzo dialogo.
1
3 Sì che, serbando a lui qualch'altra materia,
ecco a voi presento questo numero de dialogi, li quali certamente saranno cossì
buoni o tristi, preggiati o indegni, eccellenti o vili, dotti o ignoranti, alti
o bassi, profittevoli o disutili, fertili o sterili, gravi o dissoluti,
religiosi o profani, come di quei, nelle mani de quali potran venire, altri son
de l'una, altri de l'altra contraria maniera. E perché il numero de stolti e
perversi è incomparabilmente più grande che de sapienti e giusti, aviene che,
se voglio remirare alla gloria o altri frutti che parturisce la moltitudine de
voci, tanto manca ch'io debba sperar lieto successo del mio studio e lavoro, che
più tosto ho da aspettar materia de discontentezza, e da stimar molto meglior
il silenzio ch'il parlare. Ma, se fo conto de l'occhio de l'eterna veritade, a
cui le cose son tanto più preciose ed illustri, quanto talvolta non solo son da
più pochi conosciute, cercate e possedute, ma, ed oltre, tenute a vile,
biasimate, perseguitate; accade ch'io tanto più mi forze a fendere il corso de
l'impetuoso torrente, quanto gli veggio maggior vigore aggionto dal turbido,
profondo e.clivoso varco.
4 Cossì dunque lasciaremo la moltitudine
ridersi, scherzare, burlare e vagheggiarsi su la superficie de mimici, comici ed
istrionici Sileni, sotto gli quali sta ricoperto, ascoso e sicuro il tesoro
della bontade e veritade, come, per il contrario, si trovano più che molti, che
sotto il severo ciglio, volto sommesso, prolissa barba e toga maestrale e grave,
studiosamente a danno universale conchiudeno l'ignoranza non men vile che
boriosa, e non manco perniciosa che celebrata ribaldaria.
5 Qua molti, che per sua bontà e dottrina non
possono vendersi per dotti e buoni, facilmente potranno farse innanzi, mostrando
quanto noi siamo ignoranti e viziosi. Ma sa Dio, conosce la verità infallibile
che, come tal sorte d'uomini son stolti, perversi e scelerati, cossì io in miei
pensieri, paroli e gesti non so, non ho, non pretendo altro, che sincerità,
simplicità, verità. Talmente sarà giudicato dove l'opre ed effetti eroici non
saran creduti frutti de nessun valore e vani; dove non è giudicata somma
sapienza il credere senza discrezione; dove si distingueno le imposture de gli
uomini da gli consegli divini; dove non è giudicato atto di religione e pietà
sopraumana il pervertere la legge naturale; dove la studiosa contemplazione non
è pazzia; dove ne l'avara possessione non consiste l'onore, in atti di gola la
splendidezza, nella moltitudine de servi, qualunque sieno, la riputazione, nel
meglio vestire la dignità, nel più avere la grandezza, nelle maraviglie la
verità, nella malizia la prudenza, nel tradimento l'accortezza, ne la
decepzione la prudenza, nel fengere il saper vivere, nel furore la fortezza, ne
la forza la legge, ne la tirannia la giustizia, ne la violenza il giudicio; e
cossì si va discorrendo per tutto. Qua Giordano parla per volgare, nomina
liberamente, dona il proprio nome a chi la natura dona il proprio essere; non
dice vergognoso quel che fa degno la natura; non cuopre quel ch'ella mostra
aperto; chiama il pane, pane; il vino, vino; il capo, capo; il piede, piede; ed
altre parti, di proprio nome; dice il mangiare, mangiare; il dormire, dormire;
il bere, bere; e cossì gli altri atti naturali significa con proprio titolo. Ha
gli miracoli per miracoli, le prodezze e maraviglie per prodezze e maraviglie,
la verità per verità, la dottrina per dottrina, la bontà e virtù per bontà
e virtù, le imposture per imposture, gl'inganni per inganni, il coltello e
fuoco per coltello e fuoco, le paroli e sogni per paroli e sogni, la pace per
pace, l'amore per amore. Stima gli filosofi per filosofi, gli pedanti per
pedanti, gli monachi per monachi, li ministri per ministri, li predicanti per
predicanti, le sanguisughe per sanguisughe, gli disutili, montainbanco,
ciarlatani, bagattellieri, barattoni, istrioni, papagalli per quel che si
dicono, mostrano e sono; ha gli operarii, benefici, sapienti ed eroi per questo
medesimo. Orsù, orsù! questo, come cittadino e domestico del mondo, figlio del
padre Sole e de la Terra madre, perché ama troppo il mondo, veggiamo come debba
essere odiato, biasimato, perseguitato e spinto da quello. Ma in questo mentre
non stia ocioso, né.mal occupato su l'aspettar de la sua morte, della sua
transmigrazione, del suo cangiamento.
6 Oggi presente al Sidneo gli numerati ed
ordinati semi della sua moral filosofia, non perché come cosa nuova le mire, le
conosca, le intenda; ma perché le essamine, considere e giudichi; accettando
tutto quel che si deve accettare, iscusando tutto quel che si deve iscusare, e
defendendo tutto quel che si deve defendere contra le rughe e supercilio
d'ipocriti, il dente e naso de scìoli, la lima e sibilo de pedanti; avertendo
gli primi, che lo stimino certo di quella religione la quale comincia, cresce e
si mantiene con suscitar morti, sanar infermi e donar del suo; e non può essere
affetto, dove si rapisce quel d'altro, si stroppiano i sani ed uccidono gli
vivi; consegliando a gli secondi, che si convertano a l'intelletto agente e sole
intellettuale, pregandolo che porga lume a chi non n'ha; facendo intendere a gli
terzi, che a noi non conviene l'essere, quali essi sono, schiavi de certe e
determinate voci e paroli; ma, per grazia de dei, ne è lecito, e siamo in
libertà di far quelle servire a noi, prendendole ed accomodandole a nostro
commodo e piacere. Cossì non ne siano molesti gli primi con la perversa
conscienza, gli secondi con il cieco vedere, gli terzi con la mal impiegata
sollecitudine, se non vogliono esser arguiti gli primi de stoltizia, invidia e
malignitade; ripresi gli secondi d'ignoranza, presunzione e temeritade; notati
gli terzi de viltà, leggerezza e vanitade: per non esserse gli primi astenuti
dalla rigida censura de nostri giudicii, gli secondi da proterva calunnia de
nostri sentimenti, gli terzi dal sciocco crivellar de nostre paroli.
7 Or, per venire a far intendere, a chiunque
vuole e puote, la mia intenzione ne gli presenti discorsi, io protesto e
certificó che, per quanto appartiene a me, approvo quello che comunmente da
tutti savii e buoni è stimato degno di essere approvato, e riprovo con gli
medesimi il contrario. E però priego e scongiuro tutti, che non sia qualcuno di
animo tanto enorme e spirito tanto maligno, che voglia definire, donando ad
intendere a sé e ad altri, che ciò che sta scritto in questo volume, sia detto
da me come assertivamente; né creda (se vuol credere il vero) che io, o per sé
o per accidente, voglia in punto alcuno prender mira contra la verità, e
balestrar contra l'onesto, utile e naturale, e, per conseguenza, divino; ma
tegna per fermo che con tutto il mio sforzo attendo al contrario; e se tal volta
aviene ch'egli non possa esser capace di questo, non si determine; ma reste in
dubio sin tanto che non vegna risoluto dopo penetrato entro la midolla del
senso. Considere appresso che questi son dialogi, dove sono interlocutori gli
quali fanno la lor voce e da quali son raportati gli discorsi de molti e molti
altri, che parimente abondano nel proprio senso, raggionando con quel fervore e
zelo che massime può essere ed è appropriato a essi. Per tanto non sia chi
pense altrimente, eccetto che questi tre dialogi son stati messi e distesi sol
per materia e suggetto d'un artificio futuro; perché, essendo io in intenzione
di trattar la moral filosofia secondo il lume interno che in me ave irradiato ed
irradia il divino sole intellettuale, mi par espediente prima di preponere certi
preludii a similitudine de musici; imbozzar certi occolti e confusi delineamenti
ed ombre, come gli pittori; ordire e distendere certa fila, come le tessetrici;
e gittar certi bassi, profondi e ciechi fondamenti, come gli grandi edificatori:
il che non mi parea più convenientemente poter effettuarsi, se non con ponere
in numero e certo ordine tutte le prime forme de la moralità, che sono le
virtudi e vizii capitali, nel modo che vedrete al presente introdutto un
repentito Giove, ch'avea colmo di tante bestie, come di tanti vizii, il cielo,
secondo la forma di quarant'otto famose imagini; ed ora consultar di bandir
quelli dal cielo, da la gloria e luogo d'esaltazione, destinandogli per il più
certe regioni in terra, ed in quelle medesime stanze facendo succedere le già
tanto tempo bandite e tanto indegnamente disperse virtudi. Or, mentre ciò si
mette in esecuzione, se vedete vituperar cose che vi paiono indegne di
vitupèro, spreggiate cose degne di stima, inalzate cose meritevoli di biasimo;
e per il contrario; abbiate tutto per detto (anco da quei che possono nel suo
grado dirlo) indefinitamente, come messo in difficultade, posto in campo,
cacciato in teatro, che aspetta di essere essaminato, discusso e messo al
paragone, quando si consertarà la musica, si figurarà la imagine, s'intesserà
la tela, s'inalzarà il tetto. In questo mentre Sofia presenta Sofia, Saulino fa
il Saulino, Giove il Giove; Momo, Giunone, Venere ed altri Greci o Egizii,
dissoluti o gravi, quel che essi e qual essi sono, e puote appropriarsi alla
condizion e natura che possono presentare. Se vedete seriosi e giocosi
propositi, pensate che tutti sono equalmente degni d'essere con non ordinarii
occhiali remirati. In conclusione, non abbiate altro per definito che l'ordine
ed il numero de soggetti della considerazion morale, insieme con gli fondamenti
di tal filosofia, la qual tutta intieramente vedrete figurata in essi. Del
resto, in questo mezzo ognuno prenda gli frutti che può, secondo la capacità
del proprio vase; perché non è cosa sì ria che non si converta in profitto ed
utile de buoni; e non è cosa tanto buona e degna che non possa esser caggione e
materia di scandalo a' ribaldi. Qua, dunque, avendo tutto l'altro (onde non si
può raccôrre degno frutto di dottrina) per cosa dubia, suspetta ed impendente,
prendasi per final nostro intento l'ordine, l'intavolatura, la disposizione,
l'indice del metodo, l'arbore, il teatro e campo de le virtudi e vizii; dove
appresso s'ha da discorrere, inquirere, informarsi, addirizzarsi, distendersi,
rimenarsi ed accamparsi con altre considerazioni; quando, determinando del tutto
secondo il nostro lume e propria intenzione, ne esplicaremo in altri ed altri
particulari dialogi, ne li quali l'universal architettura di cotal filosofia
verrà pienamente compita, e dove raggionaremo più per modo definitivo.
8 Abbiamo, dunque, qua un Giove, non preso per
troppo leggitimo e buon vicario o luogotenente del primo principio e causa
universale; ma ben tolto qual cosa variabile, suggetta al fato della mutazione.
Però, conoscendo egli che in tutto uno infinito ente e sustanza sono le nature
particolari infinite ed innumerabili (de quali egli è un individuo), che, come
in sustanza, essenza e natura sono uno, cossì per raggion del numero che
subintrano, incorreno innumerabili vicissitudini e specie di moto e mutazione;
ciascuna, dunque, di esse, e particularmente Giove, si trova esser tale
individuo, sotto tal composizione, con tali accidenti e circonstanze, posto in
numero per differenze che nascono da le contrarietadi, le quali tutte si
riducono ad una originale e prima, che è primo principio de tutte l'altre, che
sono efficienti prossimi d'ogni cangiamento e vicissitudine: per cui, come da
quel che prima non era Giove, appresso fu fatto Giove, cossì, da quel ch'al
presente è Giove, al fine sarà altro che Giove. Conosce che dell'eterna
sustanza corporea (la quale non è denichilabile né adnichilabile, ma
rarefabile, inspessabile, formabile, ordinabile, figurabile) la composizione si
dissolve, si cangia la complessione, si muta la figura, si altera l'essere, si
varia la fortuna; rimanendo sempre quel che sono in sustanza gli elementi; e
quell'istesso, che fu sempre, perseverando l'uno principio materiale, che è
vera sustanza de le cose, eterna, ingenerabile, incorrottibile. Conosce bene,
che dell'eterna sustanza incorporea niente si cangia, si forma o si difforma; ma
sempre rimane pur quella che non può essere suggetto de dissoluzione, come non
è possibil che sia suggetto di composizione; e però né per sé né per
accidente alcuno può esser detta morire; perché morte non è altro che
divorzio de parti congionte nel composto; dove, rimanendo tutto l'essere
sustanziale (il quale non può perdersi) di ciascuna, cessa quell'accidente
d'amicizia, d'accordo, di complessione, unione ed ordine. Sa che la sustanza
spirituale, bench'abbia familiarità con gli corpi, non si deve stimar che
propriamente vegna in composizione o mistione con quelli: perché questo
conviene a corpo con corpo, a parte di materia complessionata d'un modo con
parte di materia complessionata d'un'altra maniera; ma è una cosa, un principio
efficiente ed informativo da dentro, dal quale, per il quale e circa il quale si
fa la composizione; ed è a punto come il nocchiero a la nave, il padre di
fameglia in casa ed uno artefice non esterno, ma che da entro fabrica, contempra
e conserva l'edificio; ed in esso è l'efficacia di tener uniti gli contrarii
elementi, contemperar insieme, come in certa armonia, le discordante qualitadi,
a far e mantenir la composizione d'uno animale. Esso intorce il subbio, ordisce
la tela, intesse le fila, modera le tempre, pone gli ordini, digerisce e
distribuisce gli spiriti, infibra le carni, stende le cartilagini, salda l'ossa,
ramifica gli nervi, incava le arterie, infeconda le vene, fomenta il core,
inspira gli polmoni, soccorre a tutto, di dentro, con il vital calore ed umido
radicale, onde tale ipostasi consista, e tal volto, figura e faccia appaia di
fuori. Cossì si forma la stanza in tutte le cose dette animate, dal centro del
core, o cosa proporzionale a quello, esplicando e figurando le membra, e quelle
esplicate e figurate conservando. Cossì, necessitato dal principio della
dissoluzione, abandonando la sua architettura, caggiona la ruina de l'edificio,
dissolvendo li contrarii elementi, rompendo la lega, togliendo la ipostatica
composizione, per non posser eternamente con medesimi temperamenti, perpetuando
medesime fila, e conservando quegli ordini istessi, annidarsi in uno medesimo
composto: però da le parti esterne e membra facendo la ritretta al core, e
quasi riaccogliendo gl'insensibili stormenti ed ordegni, mostra apertamente, che
per la medesima porta esce, per cui gli convenne una volta entrare. Sa Giove che
non è verisimile né possibile che, se la materia corporale, la quale è
componibile, divisibile, maneggiabile, contrattabile, formabile, mobile e
consistente sotto il domìno, imperio e virtù de l'anima, non è adnichilabile,
non è in punto o atomo adnullabile, per il contrario, la natura più
eccellente, che impera, governa, presiede, muove, vivifica, invegeta, insensua,
mantiene e contiene, sia di condizion peggiore: sia, dico (come vogliono certi
stolti sotto nome de filosofi) un atto, che resulta da l'armonia, simmetria,
complessione, ed in fine un accidente che per la dissoluzione del composto vada
in nulla insieme con la composizione; più tosto che principio e causa
intrinseca di armonia, complessione e simmetria che da esso deriva; il quale non
meno può sussistere senza il corpo che il corpo -che è da lui mosso,
governato, e per sua presenza unito, e per sua absenza disperso - può essere
senza lui. Questo principio, dunque, stima Giove esser quella sustanza che è
veramente l'uomo, e non accidente che deriva dalla composizione. Questo è il
nume, l'eroe, il demonio, il dio particolare, l'intelligenza; in cui, da cui e
per cui, come vegnon formate e si formano diverse complessioni e corpi, cossì
viene a subintrare diverso essere in specie, diversi nomi, diverse forme.
Questo, per esser quello che, quanto a gli atti razionali ed appetiti, secondo
la raggione muove e governa il corpo, è superiore a quello, e non può essere
da lui necessitato e constretto; aviene per l'alta giustizia che soprasiede alle
cose tutte, che per gli disordinati affetti vegna nel medesimo o in altro corpo
tormentato ed ignobilito, e non debba aspettar il governo ed administrazione di
meglior stanza, quando si sarà mal guidato nel regimento d'un'altra. Per aver,
dunque, ivi menata vita, per essempio, cavallina o porcina, verrà (come molti
filosofi più eccellenti hanno inteso; ed io stimo, che se non è da esser
creduto, è molto da esser considerato) disposto dalla fatal giustizia, che gli
sia intessuto in circa un carcere conveniente a tal delitto o crime, organi ed
instrumenti convenevoli a tale operario o artefice. E cossì, oltre ed oltre
sempre discorrendo per il fato della mutazione, eterno verrà incorrendo altre
ed altre peggiori e megliori specie di vita e di fortuna, secondo che s'è
maneggiato megliore- o peggiormente nella prossima precedente condizione e
sorte. Come veggiamo che l'uomo, mutando ingegno e cangiando affetto, da buono
dovien rio, da temprato stemprato; e per il contrario, da quel che sembrava una
bestia, viene a sembrare un'altra peggiore o megliore, in virtù de certi
delineamenti e figurazioni, che, derivando da l'interno spirito, appaiono nel
corpo; di sorte che non fallaran mai un prudente fisionomista. Però, come
nell'umana specie veggiamo de molti in viso, volto, voci, gesti, affetti ed
inclinazioni, altri cavallini, altri porcini, asinini, aquilini, buovini; cossì
è da credere che in essi sia un principio vitale, per cui, in potenza di
prossima passata o di prossima futura mutazion di corpo, sono stati o sono per
esser porci, cavalli, asini, aquile, o altro che mostrano; se per abito di
continenza, de studii, di contemplazione ed altre virtudi o vizii non si
cangiano e non si disponeno altrimente. Da questa sentenza (da noi, più che par
comporte la raggion del presente loco, non senza gran causa distesa) pende
l'atto de la penitenza di Giove, il qual s'introduce come volgarmente è
descritto: un dio che ebbe de le virtudi e gentilezze, ed ebbe de le
dissoluzioni, leggerezze e fragilitadi umane, e talvolta brutali e bestiali;
come è figurato, quando è fama, che si cangiasse in que' varii suggetti o
forme, per significar la mutazion de gli affetti suoi diversi che incorre il
Giove, l'anima, l'uomo, trovandosi in questa fluttuante materia. Quel medesimo
è messo governatore e motor del cielo, per donar ad intendere, come in ogni
uomo, in ciascuno individuo si contempla un mondo, un universo; dove per Giove
governatore è significato il lume intellettuale che dispensa e governa in esso,
e distribuisce in quel mirabile architetto gli ordini e sedie de virtudi e vizii.
9 Questo mondo, tolto secondo l'imaginazion de
stolti matematici, ed accettato da non più saggi fisici, tra quali gli
Peripatetici son più vani, non senza frutto presente: prima diviso come in
tante sfere, e poi distinto in circa quarant'otto imagini (nelle quali intendeno
primamente partito un cielo ottavo, stellifero, detto da' volgari firmamento),
viene ad essere principio e suggetto del nostro lavoro. Perché qua Giove (che
rapresenta ciascun di noi), come da conceputo nacque, da fanciullo dovenne
giovane e robusto, e da tale è dovenuto e dovien sempre più e più vecchio ed
infermo: cossì da innocente ed inabile si fa nocivo ed abile, dovien tristo, e
talor si fa buono; da ignorante savio, da crapulone sobrio, da incontinente
casto, da dissoluto grave, da iniquo giusto; al che tal volta vien inchinato da
la forza che gli vien meno, e spinto e spronato dal timor della giustizia
fatale, superiore a' dei, che ne minaccia. Nel giorno dunque, che nel cielo si
celebra la festa de la Gigantoteomachia (segno de la guerra continua e senza
triegua alcuna, che fa l'anima contra gli vizii e disordinati affetti), vuole
effettuar e definir questo padre quello che per qualche spacio di tempo avanti
avea proposto e determinato; come un uomo, per mutar proposito di vita e
costumi, prima vien invitato da certo lume che siede nella specola, gaggia o
poppa de la nostra anima, che da alcuni è detto sinderesi e qua forse è
significato quasi sempre per Momo. Propone, dunque, a gli dei, cioè essercita
l'atto del raziocinio de l'interno conseglio, e si mette in consultazion circa
quel ch'è da fare; e qua convoca i voti, arma le potenze, adatta gl'intenti;
non dopo cena, e ne la notte de l'inconsiderazione, e senza sole d'intelligenza
e lume di raggione; non a diggiuno stomaco, la mattina, cioè senza fervor di
spirito, ed esser bene iscaldato dal superno ardore; ma dopo pranso, cioè dopo
aver gustato ambrosia di virtuoso zelo ed esser imbibito del nettare del divino
amore; circa il mezogiorno, o nel punto di quello, cioè, quando meno ne
oltraggia nemico errore, e più ne favorisce l'amica veritade, in termine di
più lucido intervallo. Allora si dà spaccio a la bestia trionfante, cioè a
gli vizii che predominano e sogliono conculcar la parte divina; si ripurga
l'animo da errori, e viene a farsi ornato de virtudi; e per amor della bellezza
che si vede nella bontà e giustizia naturale, e per desio de la voluttà
consequente da frutti di quella, e per odio e tema de la contraria difformitade
e dispiacere.
10 Questo s'intende accettato ed accordato da
tutti e in tutti gli dei, quando le virtudi e potenze de l'anima concorreranno a
faurir l'opra ed atto di quel tanto che per giusto, buono e vero definisce
quello efficiente lume; ch'addirizza il senso, l'intelletto, il discorso, la
memoria, l'amore, la concupiscibile, l'irascibile, la sinderesi, l'elezione:
facultadi significate per Mercurio, Pallade, Diana, Cupido, Venere, Marte, Momo,
Giove ed altri numi.
11 Dove dunque era l'Orsa, per raggion del
luogo, per esser parte più eminente del cielo, si prepone la Verità; la quale
è più alta e degna de tutte cose, anzi la prima, ultima e mezza; perché ella
empie il campo de l'Entità, Necessità, Bontà, Principio, Mezzo, Fine,
Perfezione: si concepe ne gli campi contemplativi metafisico, fisico, morale,
logicale. E con l'Orsa descendeno la Difformità, Falsità, Difetto,
Impossibilità, Contingenzia, Ipocrisia, Impostura, Fellonia. - La stanza de
l'Orsa maggiore, per causa da non dirla in questo luogo, rimane vacante. - Dove
s'obliqua ed incurva il Drago, per esser vicina alla Verità, si loca la
Prudenza con le sue damigelle, Dialettica e Metafisica, che ha circonstanti da
la destra la Callidità, Versuzia, Malizia, da la sinistra la Stupidità,
l'Inerzia, l'Imprudenzia. Versa nel campo della Consultazione. Da quel luogo
casca la Casualità, l'Improvisione, la Sorte, la Stracuragine, con le sinistre
e destre circonstanti. Da là, dove solo scrimisce Cefeo, cade il Sofisma,
l'Ignoranza di prava disposizione, la Stolta Fede con le serve, ministre e
circonstanti; e la Sofia, per esser compagna de la Prudenza, vi si presenta, e
si vedrà versar negli campi divino, naturale, morale, razionale. - Là dove
Artofilace osserva il carro, monta la Legge, per farsi vicina alla madre Sofia;
e quella vedrassi versare ne li campi divino, naturale, gentile, civile,
politico, economico ed etico particolare, per gli quali s'ascende a cose
superiori, si descende a cose inferiori, si distende ed allarga a cose uguali e
si versa in se stesso. Da là cade la Prevaricazione, Delitto, Eccesso,
Exorbitanza con li loro figli, ministri e compagni. Ove luce la Corona boreale,
accompagnandola la Spada, s'intende il Giudizio, come prossimo effetto de la
legge ed atto di giustizia. Questo sarà veduto versare in cinque campi di
Apprensione, Discussione, Determinazione. Imposizione, Execuzione; ed indi, per
conseguenza, cade l'Iniquitade con tutta la sua fameglia. Per la corona, che
tiene la quieta sinistra, si figura il Premio e Mercede; per la spada, che vibra
la negociosa destra, è figurato il Castigo e Vendetta. - Dove con la sua mazza
par che si faccia spacio Alcide, dopo il dibatto de la Ricchezza, Povertade,
Avarizia e Fortuna, con le lor presentate corti, va a far la sua residenza la
Fortezza, la qual vedrete versar negli campi de l'Impugnazione, Ripugnanza,
Espugnazione, Mantenimento, Offensione, Defensione; dalla cui destra cascano la
Ferinità, la Furia, la Fierezza; e dalla sinistra la Fiacchezza, Debilità,
Pusillanimità; e circa la quale si veggono la Temeritade, Audacia, Presunzione,
Insolenza, Confidenza, ed a l'incontro la Viltà, Trepidazione, Dubio,
Desperazione con le compagne e serve. Versa quasi per tutti gli campi. - Dove si
vede la Lira di nove corde, monta la madre Musa con le nove figlie, Aritmetrica,
Geometria, Musica, Logica, Poesia, Astrologia, Fisica, Metafisica, Etica; onde,
per conseguenza, casca l'Ignoranza, Inerzia e Bestialitade. Le madri han
l'universo per campo, e ciascuna de le figlie ha il proprio suggetto. - Dove
distende l'ali il Cigno, ascende la Penitenza, Ripurgazione, Palinodia,
Riformazione, Lavamento; ed indi, per conseguenza, cade la Filautia, Immondizia,
Sordidezza, Impudenzia, Protervia con le loro intiere fameglie. Versano circa e
per il campo de l'Errore e Fallo. - Onde è dismessa l'incatedrata Cassiopea con
la Boriosità, Alterezza, Arroganza, Iattanza ed altre compagne che si vedeno
nel campo de l'Ambizione e Falsitade; monta la regolata Maestà, Gloria, Decoro,
Dignità, Onore ed altri compagni con la lor corte, che per ordinario versano ne
li campi della Simplicità, Verità ed altri simili per principale elezione; e
talvolta per forza di Necessitade in quello de la Dissimulazione ed altri
simili, che per accidente possono esser ricetto de virtudi. - Ove il feroce
Perseo mostra il gorgonio trofeo, monta la Fatica, Sollecitudine, Studio,
Fervore, Vigilanza, Negocio, Essercizio, Occupazione, con gli sproni del zelo e
del timore. Ha Perseo gli talari de l'util Pensiero e Dispreggio del ben
popolare, con gli ministri Perseveranza, Ingegno, Industria, Arte, Inquisizione
e Diligenza; e per figli conosce l'Invenzione ed Acquisizione, de quali ciascuno
ha tre vasi pieni di Bene di fortuna, di Ben di corpo, di Bene d'animo. Discorre
ne gli campi di Robustezza, Forza, Incolumità; gli fuggono d'avanti il Torpore,
l'Accidia, l'Ocio, l'Inerzia, la Desidia, la Poltronaria, con tutte le lor
fameglie da un canto; e da l'altro l'Inquietitudine, Occupazion stolta,
Vacantaria, Ardelia, Curiositade, Travaglio, Perturbazione, che esceno dal campo
de l'Irritamento, Instigazione, Constrettura, Provocazione ed altri ministri che
edificano il palaggio del Pentimento. - A la stanza de Triptolemo monta la
umanità con la sua fameglia: Conseglio, Aggiuto, Clemenzia, Favore, Suffragio,
Soccorso, Scampo, Refrigerio, con altri compagni e fratelli di costoro e suoi
ministri e figli, che versano nel campo de la Filantropia proprio, a cui non
s'accosta la Misantropia, con la sua corte: Invidia, Malignità, Disdegno,
Disfavore ed altri fratelli di questi, che discorreno per il campo de la
Discortesia, ed altri viziosi. - A la casa de l'Ofiulco sale la Sagacità,
Accortezza, Sottilezza ed altre simili virtudi abitanti nel campo de la
Consultazione e Prudenza; onde fugge la Goffaria, Stupidezza, Sciocchezza con le
lor turbe, che tutte cespitano nel campo de l'Imprudenza ed Inconsultazione. -
In loco de la Saetta si vede la giudiciosa Elezione, Osservanza ed Intento, che
si essercitano nel campo de l'ordinato Studio, Attenzione ed Aspirazione; e da
là si parteno la Calunnia, la Detrazione, il Repicco ed altri figli d'Odio ed
Invidia che si compiaceno ne gli orti de l'Insidia, Ispionia e simili ignobili e
vilissimi coltori. - Al spacio, in cui s'inarca il Delfino, si vede la
Dilezione, Affabilità, Officio, che insieme con la lor compagnia si trovano nel
campo de la Filantropia, Domestichezza; onde fugge la nemica ed oltraggiosa
turba, ch'a gli campi della Contenzione, Duello e Vendetta si ritira. - Là
d'onde l'Aquila si parte con l'Ambizione, Presunzione, Temeritade, Tirannia,
Oppressione ed altre compagne negociose nel campo de l'Usurpazione e Violenza,
va ad soggiornare la Magnanimità, Magnificenza, Generosità, Imperio, che
versano ne li campi della Dignitade, Potestade, Autoritade. - Dove era il
Pegaseo cavallo, ecco il Furor divino, Entusiasmo, Rapto, Vaticinio e
Contrazione, che versano nel campo de l'Inspirazione; onde fugge lontano il
Furor ferino, la Mania, l'Impeto irrazionale, la Dissoluzione di spirito, la
Dispersion del senso interiore, che si trovano nel campo de la stemprata
Melancolia, che si fa antro al Genio perverso. - Ove cede Andromeda con
l'Ostinazione, Perversitade e stolta Persuasione, che si apprendeno nel campo de
la doppia Ignoranza, succede la Facilità, la Speranza, l'Aspettazione, che si
mostraranno al campo della buona Disciplina. - Onde si spicca il Triangolo, ivi
si fa consistente la Fede, altrimente detta Fideltade, che s'attende nel campo
de la Constanza, Amore, Sincerità, Simplicità, Verità ed altri, da quali son
molto discosti gli campi de la Frode, Inganno, Instabilità. - A la già regia
del Montone ecco messo il Vescovato, Ducato, Exemplarità, Demonstranza,
Conseglio, Indicazione, che son felici nel campo de l'Ossequio, Obedienza,
Consentimento, virtuosa Emulazione, Imitazione; e da là si parte il mal
Essempio, Scandalo, Alienamento, che son cruciati nel campo de la Dispersione,
Smarrimento, Apostasia, Scisma, Eresia. - Il Tauro mostra esser stato figura de
la Pazienza, Toleranza, Longanimitade, Ira regolata e giusta, che si maneggiano
nel campo del Governo, Ministerio, Servitude, Fatica, Lavoro, Ossequio ed altri.
Seco si parte l'Ira disordinata, la Stizza, il Dispetto, il Sdegno, Ritrosia,
Impazienza, Lamento, Querela, Còlera, che si trovano quasi per gli medesimi
campi. - Dove abitavano le Pleiadi, monta la Unione, Civilità, Congregazione,
Popolo, Republica, Chiesa, che consisteno nel campo del Convitto, Concordia,
Communione; dove presiede il regolato Amore; e con quelle è trabalsato dal
cielo il Monopolio, la Turba, la Setta, il Triumvirato, la Fazione, la Partita,
l'Addizione, che periclitano ne' campi de disordinata Affezione, iniquo Dissegno,
Sedizione, Congiura, dove presiede il Perverso Conseglio con tutta la sua
fameglia. - Onde parteno li Gemegli, sale il figurato Amore, Amicizia, Pace, che
si compiaceno ne' proprii campi; e quelli banditi menan seco la Parzialitade
indegna, che ostinata affigge il piede nel campo de l'iniquo e perverso Desio. -
Il Granchio mena seco la mala Repressione, l'indegno Regresso, il vil Difetto,
il non lodabile Refrenamento, la Dismession de le braccia, la Ritrazion de'
piedi dal ben pensare e fare, il Ritessimento di Penelope ed altri simili
consorti e compagni che si rimetteno e serbano nel campo de l'Inconstanza,
Pusillanimità, Povertà de spirto, Ignoranza ed altri molti; ed alle stelle
ascende la Conversion retta, Ripression dal male, Ritrazion dal falso ed iniquo
con gli lor ministri, che si regolano nel campo del Timore onesto, Amor
ordinato, retta Intenzione, lodevol Penitenza ed altri sozii contrarii al mal
Progresso, al rio Avanzamento, Pertinacia profittevole. - Mena seco il Leone il
tirannico Terrore, Spavento e Formidabilità, la perigliosa ed odibile
Autoritade e Gloria della presunzione e Piacere di esser temuto più tosto che
amato. Versano nel campo del Rigore, Crudeltà, Violenza, Suppressione, che ivi
son tormentate da le ombre del Timore e Suspizione; ed al celeste spacio ascende
la Magnanimità, Generosità, Splendore, Nobiltà, Prestanza, che administrano
nel campo della Giustizia, Misericordia, giusta Debellazione, degna
Condonazione, che pretendeno sul studio d'esser più tosto amate che temute; ed
ivi si consolano con la Sicurtà, Tranquillitade di spirito e lor fameglia. - Va
a giongersi con la Vergine la Continenza, Pudicizia, Castità, Modestia,
Verecundia, Onestade, che trionfano nel campo della Puritade ed Onore,
spreggiato da l'Impudenza, Incontinenza ed altre madri de nemiche fameglie. - Le
Bilancie son state tipo de la aspettata Equità, Giustizia, Grazia, Gratitudine,
Rispetto ed altri compagni, administratori e seguaci, che versano nel trino
campo della Distribuzione, Commutazione e Retribuzione, dove non mette piè
l'Ingiustizia, Disgrazia, Ingratitudine, Arroganza ed altre lor compagne, figlie
ed amministratrici.
12 Dove incurvava l'adunca coda e stendeva le
sue branche lo Scorpione, non appare oltre la Frode, l'iniquo Applauso, il finto
Amore, l'Inganno, il Tradimento, ma le contrarie virtudi, figlie della
Simplicità, Sincerità, Veritade, e che versano ne gli campi de le madri. -
Veggiamo ch'il Sagittario era segno della Contemplazione, Studio e buono Appulso
con gli lor seguaci e servitori, che hanno per oggetto e suggetto il campo del
Vero e del Buono, per formar l'Intelletto e Voluntade, onde è molto absentata
l'affettata Ignoranza e Spenseramento vile. - Là dove ancora risiede il
Capricorno, vedi l'Eremo, la Solitudine, la Contrazione ed altre madri, compagne
ed ancelle, che si ritirano nel campo de l'Absoluzione e Libertà, nel quale non
sta sicura la Conversazione, il Contratto, Curia, Convivio ed altri appartinenti
a questi figli, compagni ed amministratori. -Nel luogo de l'umido e stemprato
Aquario vedi la Temperanza, madre de molte ed innumerabili virtudi, che
particolarmente ivi si mostra con le figlie Civilità ed Urbanitade, dalli cui
campi fugge l'Intemperanza d'affetti con la Silvestria, Asprezza, Barbaria. -
Onde con l'indegno Silenzio, Invidia di sapienza e Defraudazion di dottrina, che
versano nel campo de la Misantropia e Viltà d'ingegno, son tolti gli Pesci, vi
vien messo il degno Silenzio e Taciturnitade che versano nel campo de la
Prudenza, Continenza, Pazienza, Moderanza ed altri, da quali fuggono a'
contrarii ricetti la Loquacità, Moltiloquio, Garrulità, Scurrilità,
Boffonaria, Istrionia, Levità di propositi, Vaniloquio, Susurro, Querela,
Mormorazione. - Ove era il Ceto in secco, si trova la Tranquillità de l'animo,
che sta sicuro nel campo de la Pace e Quiete; onde viene esclusa la Tempesta,
Turbulenza, Travaglio, Inquietitudine ed altri socii e frategli. - Da là dove
spanta gli numi il divo e miracoloso Orione con l'Impostura, Destrezza,
Gentilezza disutile, vano Prodigio, Prestigio, Bagattella e Mariolia, che qual
guide, condottieri e portinaii administrano alla Iattanzia, Vanagloria,
Usurpazione, Rapina, Falsitade ed altri molti vizii, ne' campi de quali
conversano, ivi viene esaltata la Milizia studiosa contra le inique, visibili ed
invisibili potestadi; e che s'affatica nel campo della Magnanimità, Fortezza,
Amor publico, Verità ed altre virtudi innumerabili. - Dove ancor rimane la
fantasia del fiume Eridano, s'ha da trovar qualche cosa nobile, di cui altre
volte parlaremo, perché il suo venerando proposito non cape tra questi altri. -
D'onde è tolta la fugace Lepre col vano Timore, Codardiggia, Tremore,
Diffidenza, Desperazione, Suspizion falsa ed altri figli e figlie del padre
Dappocagine ed Ignoranza madre, si contemple il Timor, figlio della Prudenza e
Considerazione, ministro de la Gloria e vero Onore, che riuscir possono da tutti
gli virtuosi campi. - Dove in atto di correre appresso la lepre, avea il dorso
disteso il Can maggiore, monta la Vigilanza, la Custodia, l'Amor de la republica,
la Guardia di cose domestiche, il Tirannicidio, il Zelo, la Predicazion
salutifera, che si trovano nel campo de la Prudenza e Giustizia naturale; e con
quello viene a basso la Venazione ed altre virtù ferine e bestiali, le quali
vuol Giove che siano stimate eroiche, benché verseno nel campo de la
Manigoldaria, Bestialità e Beccaria. - Mena seco a basso la Cagnuola, l'Assentazione,
Adulazione e vile Ossequio con le lor compagnie; ed ivi in alto monta la
Placabilità, Domestichezza, Comità, Amorevolezza, che versano nel campo de la
Gratitudine e Fideltade. - Onde la Nave ritorna al mare insieme con la vile
Avarizia, buggiarda Mercatura, sordido Guadagno, fluttuante Piratismo ed altri
compagni infami, e per il più de le volte vituperosi, va a far residenza la
Liberalità, Comunicazione officiosa, Provision tempestiva, utile Contratto,
degno Peregrinaggio, munifico Transporto con gli lor fratelli, comiti, temonieri,
remigatori, soldati, sentinieri ed altri ministri, che versano nel campo de la
Fortuna. - Dove s'allungava e stendeva le spire il Serpe australe, detto l'Idra,
si fa veder la provida Cautela, giudiciosa Sagacità, revirescente Virilità;
onde cade il senil Torpore, la stupida Rifanciullanza con l'Insidia, Invidia,
Discordia, Maldicenza ed altre commensali. - Onde è tolto con il suo atro
Nigrore, crocitante Loquacità, turpe e zinganesca Impostura, con l'odioso
Affrontamento, cieco Dispreggio, negligente Servitude, tardo Officio e Gola
impaziente, il Corvo, succedeno la Magia divina co le sue figlie, la Mantia con
gli suoi ministri e fameglia, tra gli quali l'Augurio è principale e capo, che
sogliono per buon fine esercitarsi nel campo de l'Arte militare, Legge,
Religione e Sacerdozio. - D'onde con la Gola ed Ebrietade è presentata la Tazza
con quella moltitudine de ministri, compagni e circonstanti, là si vede l'Abstinenza,
ivi è la Sobrietade e Temperanza circa il vitto, con gli lor ordini e
condizioni. - Dove persevera ed è confirmato nella sua sacristia il semideo
Centauro, si ordina insieme la divina Parabola, il Misterio sacro, Favola
morale, il divino e santo Sacerdocio con gli suoi institutori, conservatori e
ministri; da là cade ed è bandita la Favola anile e bestiale con la sua stolta
Metafora, vana Analogia, caduca Anagogia, sciocca Tropologia e cieca Figuratura,
con le lor false corti, conventi porcini, sediciose sette, confusi gradi, ordini
disordinati, difformi riforme, immonde puritadi, sporche purificazioni e
perniciosissime forfantarie che versano nel campo de l'Avarizia, Arroganza ed
Ambizione; ne li quali presiede la torva Malizia, e si maneggia la cieca e
crassa Ignoranza.
13 Con l'Altare è la Religione, Pietade e
Fede: e dal suo angolo orientale cade la Credulità con tante pazzie e la
Superstizione con tante cose, coselle e coselline; e dal canto occidentale
l'iniqua Impietade ed insano Ateismo vanno in precipizio. - Dove aspetta la
Corona australe, ivi è il Premio, l'Onore e Gloria, che son gli frutti de le
virtudi faticose e virtuosi studi, che pendeno dal favore de le dette celesti
impressioni. - Onde si prende il Pesce meridionale, là è il Gusto de gli già
detti onorati e gloriosi frutti; ivi il Gaudio, il fiume de le Delicie, torrente
de la Voluptade, ivi la Cena, ivi l'anima
Pasce la mente de sì nobil cibo,
Ch'ambrosia e nettar non invidia a Giove.
Là è il Termine de gli tempestosi travagli, ivi il Letto, ivi il tranquillo
Riposo, ivi la sicura Quiete. Vale.
2 \ SAUL.\ Molto bene l'hai dimostrato, Sofia.
3 \ SOFIA\ Ogni delettazione non veggiamo
consistere in altro, che in certo transito, camino e moto. Atteso che fastidioso
e triste è il stato de la fame; dispiacevole e grave è il stato della
sazietà: ma quello che ne deletta, è il moto da l'uno a l'altro. Il stato del
venereo ardore ne tormenta, il stato dell'isfogata libidine ne contrista; ma
quel che ne appaga, è il transito da l'uno stato a l'altro. In nullo esser
presente si trova piacere, se il passato non n'è venuto in fastidio. La fatica
non piace, se non in principio, dopo il riposo; e se non in principio, dopo la
fatica, nel riposo non è delettazione.
4 \ SAUL.\ Se cossì è, non è delettazione
senza mistura di tristezza, se nel moto è la participazione di quel che
contenta e di quel che fastidisce.
5 \ SOFIA\ Dici bene. A quel che è detto
aggiongo, che Giove qualche volta, come li venesse tedio di esser Giove, prende
certe vacanze ora di agricoltore, ora di cacciatore, ora di soldato; adesso è
con gli dei, adesso con gli uomini, adesso con le bestie. Color che sono ne le
ville, prendeno la lor festa e spasso ne le cittadi; quei che sono nelle cittadi,
fanno le loro relassazioni, ferie e vacanze ne le ville. A chi è stato assiso o
colcato, piace e giova il caminare; e chi ha discorso con gli piedi, trova
refrigerio nel sedere. Ha piacer nella campagna chi troppo ha dimorato in tetto:
brama la stanza chi è satollo del campo. Il frequentar un cibo, quantunque
piacevole, è caggione di nausea al fine. Tanto che la mutazione da uno
contrario a l'altro per gli suoi participii, il moto da uno contrario a l'altro
per gli suoi mezzi viene a soddisfare; ed in fine veggiamo tanta familiarità di
un contrario con l'altro, che uno più conviene con l'altro, che il simile con
il simile.
6 \ SAUL.\ Cossì mi par vedere, perché la
giustizia non ha l'atto se non dove è l'errore, la concordia non s'effettua se
non dove è la contrarietade; il sferico non posa nel sferico, perché si
toccano in punto, ma il concavo si quieta nel convesso; e moralmente il superbo
non può convenire col superbo, il povero col povero, l'avaro con l'avaro; ma si
compiace l'uno nell'umile, l'altro nel ricco, questo col splendido. Però, se
fisica-, matematica- e moralmente si considera, vedesi che non ha trovato poco
quel filosofo che è dovenuto alla raggione della coincidenza de contrarii, e
non è imbecille prattico quel mago che la sa cercare dove ella consiste. Tutto,
dunque, che avete proferito, è verissimo: ma vorrei sapere, o Sofia, a che
proposito, a che fine voi lo dite.
7 \ SOFIA\ Quello che da ciò voglio inferire,
è che il principio, il mezzo ed il fine, il nascimento, l'aumento e la
perfezione di quanto veggiamo, è da contrarii, per contrarii, ne' contrarii, a
contrarii: e dove è la contrarietà, è la azione e reazione, è il moto, è la
diversità, è la moltitudine, è l'ordine, son gli gradi, è la successione, è
la vicissitudine. Perciò nessuno, che ben considera, giamai per l'essere ed
aver presente si desmetterà o s'inalzarà d'animo, quantunque, in comparazion
d'altri abiti e fortune, gli paia buono o rio, peggiore o megliore. Tal io con
il mio divino oggetto, che è la verità, tanto tempo, come fuggitiva, occolta,
depressa e sommersa, ho giudicato quel termine, per ordinanza del fato, come
principio del mio ritorno, apparizione, essaltazione e magnificenza tanto più
grande, quanto maggiori son state le contradizioni.
8 \ SAUL.\ Cossì aviene, che chi vuol più
gagliardamente saltando alzarsi da terra, li fia mestiero che prima ben si
recurve; e chi studia di superar più efficacemente trapassando un fosso,
accatta talvolta l'émpito, sé ritirando otto o diece passi a dietro.
9 \ SOFIA\ Tanto più, dunque, spero nel futuro
meglior successo, per grazia del fato, quanto sin al presente mi son trovata al
peggio.
10 \ SAUL.\ ... Quanto più depresso,
Quanto è più l'uom di questa ruota al fondo,
Tanto a quel punto più si trova appresso,
C'ha da salir, si de' girarsi in tondo:
Alcun sul ceppo quasi il capo ha messo,
Che l'altro giorno ha dato legge al mondo.
11 Ma, di grazia, séguita, Sofia, a specificar
più espressamente il tuo proposito.
12 \ SOFIA\ Il tonante Giove, dopo che tanti
anni ha tenuto del giovane, s'è portato da scapestrato ed è stato occupato ne
l'armi e ne gli amori, ora, come domo dal tempo, comincia a declinare da le
lascivie e vizii e quelle condizioni che la virilitade e gioventude apportan
seco.
13 \ SAUL.\ Poeti sì, filosofi non mai hanno
sì fattamente descritti ed introdotti gli dei. Dunque, Giove e gli altri dei
invecchiano? dunque, non è impossibile ch'ancor essi abbiano ad oltrepassar le
rive di Acheronte?
14 \ SOFIA\ Taci, non mi levar di proposito,
Saulino. Ascoltami sin al fine.
15 \ SAUL.\ Dite pure, ch'io attentissimamente
vi ascolto; perché son certo, che dalla tua bocca non esceno se non grandi e
gravi propositi: ma dubito che la mia testa non le possa capire e sustenere.
16 \ SOFIA\ Non dubitate. Giove, dico, comincia
ad esser maturo, e non admette oltre nel conseglio, eccetto che persone ch'hanno
in capo la neve, alla fronte gli solchi, al naso gli occhiali, al mento la
farina, alle mani il bastone, ai piedi il piombo: in testa, dico, la fantasia
retta, la cogitazion sollecita, la memoria ritentiva; ne la fronte la sensata
apprensione, ne gli occhi la prudenza, nel naso la sagacità, nell'orecchio
l'attenzione, ne la lingua la veritade, nel petto la sinceritade, nel core gli
ordinati affetti, ne le spalli la pazienza, nel tergo l'oblivio de le offese,
nel stomaco la discrezione, nel ventre la sobrietade, nel seno la continenza, ne
le gambe la constanza, ne le piante la rettitudine, ne la sinistra il pentateuco
di decreti, nella destra la raggione discussiva, la scienza indicativa, la
regolativa giustizia, l'imperativa autoritade e la potestà executiva.
17 \ SAUL.\ Bene abituato: ma bisogna, che
prima sia ben lavato, ben ripurgato.
18 \ SOFIA\ Ora non son bestie nelle quali si
trasmute, non Europe che l'incornino in toro, non Danae che lo impallidiscano in
oro, non Lede che l'impiumino in cigno, non ninfe Asterie e frigii fanciulli che
lo imbecchino in aquila, non Dolide che lo inserpentiscano, non Mnemosine che lo
degradino in pastore, non Antiope che lo semibestialino in Satiro, non Alcmene
che lo trasmutino in Anfitrione: perché quel temone che volgeva e dirizzava
questa nave de le metamorfosi, è dovenuto sì fiacco, che poco più che nulla
può resistere a l'émpito de l'onde, e forse che l'acqua ancora gli va mancando
a basso. La vela è di maniera tale stracciata e sbusata, che in vano per
ingonfiarla il vento soffia. Gli remi, ch'al dispetto di contrarii venti e
turbide tempeste soleano risospingere il vascello avanti, ora, faccia
quantosivoglia calma, e sia a sua posta tranquillo il campo di Nettuno, in vano
il comite sibilarà a orsa, a poggia, a la sia, a la voga, perché gli
remigatori son dovenuti come paralitici.
19 \ SAUL.\ Oh gran caso!
20 \ SOFIA\ Indi non fia chi più dica e
favoleggi Giove per carnale e voluttuario; perché al buon padre s'è addonato
il spirito.
21 \ SAUL.\ Come colui, che tenea già tante
moglie, tante ancelle di moglie e tante concubine, al fine dovenuto qual ben
satollo, stuffato e lasso, disse: Vanità, vanità, ogni cosa è vanità?
22 \ SOFIA\ Pensa al suo giorno del giudizio,
perché il termine de gli o più o meno o a punto trentasei mila anni, come è
publicato, è prossimo; dove la revoluzion de l'anno del mondo minaccia, ch'un
altro Celio vegna a repigliar il domìno e per la virtù del cangiamento
ch'apporta il moto de la trepidazione, e per la varia, e non più vista, né
udita relazione ed abitudine di pianeti. Teme che il fato disponga, che
l'ereditaria successione non sia come quella della precedente grande mondana
revoluzione, ma molto varia e diversa, cracchieno quantosivoglia gli
pronosticanti astrologi ed altri divinatori.
23 \ SAUL.\ Dunque, si teme che non vegna
qualche più cauto Celio, che, all'essempio del prete Gianni, per obviare a gli
possibili futuri inconvenienti, non bandisca gli suoi figli a gli serragli del
monte Amarat, ed oltre, per tema che qualche Saturno non lo castre, non faccia
mai difetto di non allacciarsi le mutande di ferro, e non si riduca a dormire
senza braghe di diamante. Laonde, non succedendo l'antecedente effetto, verrà
chiusa la porta a tutti gli altri conseguenti, ed in vano s'aspettarà il giorno
natale della Dea di Cipro, la depressione del zoppo Saturno, l'essaltazion di
Giove, la moltiplicazion di figli e figli de' figli, nipoti e nipoti de' nipoti,
sino a la tantesima generazione, quantesima è a tempi nostri, e può sin al
prescritto termine essere ne gli futuri.
Nec iterum ad Troiam magnus mittetur Achilles.
24 \ SOFIA\ In tal termine, dunque, essendo la
condizion de le cose, e vedendo Giove ne l'importuno memoriale de la sfiancuta
forza e snervata virtude appressarsi come la sua morte, cotidianamente fa caldi
voti ed effonde ferventi preghiere al fato, acciò che le cose ne gli futuri
secoli in suo favore vegnano disposte.
25 \ SAUL.\ Tu, o Sofia, me dici de le
maraviglie. Volete voi che non conosca Giove la condizion del fato, che per
proprio e pur troppo divolgato epiteto è intitolato inesorabile? È pur
verisimile, che nel tempo de le sue vacanze (se pur il fato gli ne concede),
talvolta si volga a leggere qualche poeta; e non è difficile che gli sia
pervenuto alle mani il tragico Seneca, che li done questa lezione:
Fato ne guida, e noi cedemo al fato;
E i rati stami del contorto fuso
Solleciti pensier mutar non ponno.
Ciò che facciamo e comportiamo, d'alto
E prefisso decreto il tutto pende;
E la dura sorella
Il torto filo non ritorce a dietro.
Discorron con cert'ordine le Parche,
Mentre ciascun di noi
Va incerto ad incontrar gli fati suoi.
26 \ SOFIA\ Ancora il fato vuol questo, che,
benché sappia il medesimo Giove che quello è immutabile, e che non possa
essere altro che quel che deve essere e sarà, non manchi d'incorrere per cotai
mezzi il suo destino. Il fato ha ordinate le preci, tanto per impetrare, quanto
per non impetrare; e per non aggravar troppo gli animi trasmigranti, interpone
la bevanda del fiume Leteo, per mezzo de le mutazioni, a fine che, mediante
l'oblio, ognuno massime vegna affetto e studioso di conservarsi nel stato
presente. Però li giovani non richiamono il stato de la infanzia, gl'infanti
non appeteno il stato nel ventre de la madre, e nessuno di questi il stato suo
in quella vita, che vivea prima che si trovasse in tal naturalitade. Il porco
non vuol morire per non esser porco, il cavallo massime paventa di scavallare.
Giove per le instante necessitadi sommamente teme di non esser Giove. Ma, la
mercé e grazia del fato, senza averlo imbibito de l'acqua di quel fiume, non
cangiarà il suo stato.
27 \ SAUL.\ Talché, o Sofia (cosa inaudita!),
questo nume ancora av'egli dove effondere orazioni? esso ancora versa nel timore
della giustizia? Mi maravigliavo io, perché gli dei sommamente temevano di
spergiurare la Stigia palude; ora comprendo che questo procede dal fio che denno
pagare anch'essi.
28 \ SOFIA\ Cossì è. Ha ordinato al suo fabro
Vulcano, che non lavore de giorni di festa; ha comandato a Bacco che non faccia
comparir la sua corte, e non permetta debaccare le sue Evanti, fuor che nel
tempo di carnasciale, e nelle feste principali de l'anno, solamente dopo cena,
appresso il tramontar del sole, e non senza sua speciale ed espressa licenza.
Momo, il quale avea parlato contra gli dei, e, come a essi pareva, troppo
rigidamente arguiti gli loro errori, e però era stato bandito dal concistoro e
conversazion di quegli, e relegato alla stella ch'è nella punta de la coda di
Calisto, senza facultà di passar il termine di quel parallelo a cui sottogiace
il monte Caucaso, dove il povero dio è attenuato dal rigor del freddo e de la
fame; ora è richiamato, giustificato, restituito al suo stato pristino, e posto
precone ordinario ed estraordinario con amplissimo privileggio di posser
riprendere gli vizii, senza aver punto risguardo a titolo o dignitade di persona
alcuna. Ha vietato a Cupido d'andar più vagando, in presenza degli uomini, eroi
e dei, cossì sbracato, come ha di costume; ed ingiontoli che non offenda oltre
la vista de Celicoli, mostrando le natiche per la via lattea, ed Olimpico
senato: ma che vada per l'avenire vestito almeno da la cintura a basso; e gli ha
fatto strettissimo mandato che non ardisca oltre di trar dardi se non per il
naturale, e l'amor de gli uomini faccia simile a quello de gli altri animali,
facendoli a certe e determinate staggioni inamorare; e cossì, come a gli gatti
è ordinario il marzo, a gli asini il maggio, a questi sieno accomodati que'
giorni ne' quali se innamorò il Petrarca di Laura, e Dante di Beatrice; e
questo statuto è in forma de interim sino al prossimo concilio futuro,
entrante il sole al decimo grado di Libra, il quale è ordinato nel capo del
fiume Eridano, là dove è la piegatura del ginocchio d'Orione. Ivi si
ristorarà quella legge naturale, per la quale è lecito a ciascun maschio di
aver tante moglie quante ne può nutrire ed impregnare; perché è cosa
superflua ed ingiusta, ed a fatto contrario alla regola naturale, che in una
già impregnata e gravida donna, o in altri soggetti peggiori, come altre
illegitime procacciate, - che per tema di vituperio provocano l'aborso, - vegna
ad esser sparso quell'omifico seme che potrebbe suscitar eroi e colmar le vacue
sedie de l'empireo.
29 \ SAUL.\ Ben provisto, a mio giudizio: che
più?
30 \ SOFIA\ Quel Ganimede, ch'al marcio
dispetto de la gelosa Giunone, gli era tanto in grazia, ed a cui solo liceva d'accostarsegli,
e porgergli li fulmini trisolchi, mentre a lungi passi a dietro riverentemente
si tenevano gli dei, al presente credo che, se non ha altra virtute che quella
che è quasi persa, è da temere che da paggio di Giove non debba aver a favore
di farsi come scudiero a Marte.
31 \ SAUL.\ Onde questa mutazione?
32 \ SOFIA\ E da quel che è detto del
cangiamento di Giove, e perché lo invidioso Saturno ai giorni passati, con
finta di fargli de vezzi, gli andò di maniera tale rimenando la ruvida mano per
il mento e per le vermiglie gote, che da quel toccamento se gl'impela il volto,
di sorte che pian piano va scemando quella grazia che fu potente a rapir
Giove.dal cielo, e farlo essere rapito da Giove in cielo, ed onde il figlio d'un
uomo venne deificato, ed ucellato il padre de gli dei.
33 \ SAUL.\ Cose troppo stupende! Passate
oltre.
34 \ SOFIA\ Ha imposto a tutti gli dei di non
aver paggi o cubicularii di minore etade che di vinticinque anni.
35 \ SAUL.\ Ah ah? Or che fa, che dice Apolline
del suo caro Giacinto?
36 \ SOFIA\ Oh se sapessi, quanto è egli mal
contento!
37 \ SAUL.\ Certo credo che la sua
contristazione caggiona questa oscurità del cielo, ch'ha perdurato più di
sette giomi; il suo alito produce tante nuvole, i suoi suspiri sì tempestosi
venti, e le sue lacrime sì copiose piogge.
38 \ SOFIA\ Hai divinato.
39 \ SAUL.\ Or, che sarà di quel povero
fanciullo?
40 \ SOFIA\ Ha preso partito di mandarlo a
studiar lettere umane in qualche universitade o collegio riformato, e sottoporlo
a la verga di qualche pedante.
41 \ SAUL.\ O fortuna, o sorte traditora! Ti
par questo boccone da pedanti? Non era meglio sottoporlo alla cura d'un poeta,
farlo a la mano d'un oratore, o avezzarlo su il baston de la croce? Non era più
espediente d'ubligarlo sotto la disciplina di....
42 \ SOFIA\ Non più, non più! Quel che deve
essere, sarà; quel che esser devea, è. Or per compire l'istoria di Ganimede,
l'altr'ieri, sperando le solite accoglienze, con quell'usato ghigno fanciullesco
li porgeva la tazza di nettare; e Giove, avendogli alquanto fissati gli turbidi
occhi al volto: - Non ti vergogni, li disse, o figlio di Troo? pensi ancor
essere putto? forse che con gli anni ti cresce la discrezione, e ti s'aggionge
di giudizio? non ti accorgi che è passato quel tempo, quando mi venevi ad
assordir l'orecchie, che, allora ch'uscivamo per l'atrio esteriore, Sileno,
Fauno, quel di Lampsaco ed altri si stimavano beati, se posseano aver la
commodità di rubbarti una pizzicatina, o almeno toccarti la veste, ed in
memoria di quel tocco non si lavar le mani, quando andavano a mangiare, e far de
l'altre cose che li dettava la fantasia? Ora dispònite, e pensa che forse ti
bisognarà di far altro mestiero. Lascio che io non voglio più frasche appresso
di me. - Chi avesse veduto il cangiamento di volto di quel povero garzone o
adolescente, non so se la compassione, o il riso, o la pugna de l'uno e l'altro
affetto l'avesse mosso di vantaggio.
43 \ SAUL.\ Questa volta credo io, che risit
Apollo.
44 \ SOFIA\ Attendi, perché quel ch'hai sin
ora udito, non è altro che fiore.
45 \ SAUL.\ Di' pure.
46 \ SOFIA\ Ieri che fu la festa in
commemorazion del giorno de la vittoria de dei contra gli giganti,
immediatamente dopo pranso, quella, che sola governa la natura de le cose, e per
la qual gode tutto quel che gode sotto il cielo,
-La bella madre del gemino amore,
La diva potestà d'uomini e dei,
Quella per cui ogni animante al mondo
Vien conceputo, e nato vede il sole,.
Per cui fuggono i venti e le tempeste,
Quando spunta dal lucid'oriente,
Gli arride il mar tranquillo, e di bel manto
La terra si rinveste, e gli presenta
Per belle man di Naiade gentili
Di copia di fronde, fiori e frutti
Colmo il smaltato corno d'Acheloo.
-avendo ordinato il ballo, se gli fece innante con quella grazia che
consolarebbe ed invaghirebbe il turbido Caronte; e come è il dovero de
l'ordine, andò a porgere la prima mano a Giove. Il quale, - in loco di quel
ch'era uso di fare, dico, di abbracciarla col sinistro braccio, e strenger petto
a petto, e con le due prime dita della destra premendogli il labro inferiore,
accostar bocca a bocca, denti a denti, lingua a lingua (carezze più lascive che
possano convenire a un padre in verso de la figlia), e con questo sorgere al
ballo, - ieri, impuntandogli la destra al petto, e ritenendola a dietro (come
dicesse: Noli me tangere), con un compassionevole aspetto ed una faccia
piena di devozione: - Ah Venere, Venere, li disse; è possibile che pur una
volta al fine non consideri il stato nostro, e specialmente il tuo? Pensi pur
che sia vero quello che gli uomini s'imaginano di noi, che chi è vecchio è
sempre vecchio, chi è giovane è sempre giovane, chi è putto è sempre putto,
cossì perseverando eterno, come quando da la terra siamo stati assunti al
cielo; e cossì, come là la pittura ed il ritratto nostro si contempla sempre
medesimo, talmente qua non si vada cangiando e ricangiando la vital nostra
complessione? Oggi per la festa mi si rinova la memoria di quella disposizione,
nella quale io mi ritrovavo quando fulminai e debellai que' fieri giganti che
ardîro di ponere sopra Pelia Ossa, e sopra Ossa Olimpo; quando io il feroce
Briareo, a cui la madre Terra avea donate cento braccia e cento mani, acciò
potesse con l'émpito di cento versati scogli contra gli dei debellare il cielo,
fui potente di abissare alle nere caverne dell'orco voraginoso; quando relegai
il presuntuoso Tifeo là dove il mar Tirreno col Jonio si congionge,
spingendogli sopra l'isola Trinacria, a fin che al vivo corpo la fusse perpetua
sepoltura. Onde dice un poeta:
Ivi a l'ardito ed audace Tifeo,
Che carco giace del Trinacrio pondo,
Preme la destra del monte Peloro
La grieve salma; e preme la sinistra
Il nomato Pachin; e l'ampie spalli,
Ch'al peso han fatto i calli,
Calca il sassoso e vasto Lilibeo;
E 'l capo orrendo aggrieva Mongibello,
Dove col gran martello
Folgori tempra il scabroso Vulcano.
47 Io che sopra quell'altro ho fulminata
l'isola di Prochita; io ch'ho reprimuta l'audacia di Licaone, ed a tempo di
Deucalione liquefeci la terra al ciel rubella; e con tanti altri manifesti
segnali mi son mostrato degnissimo della mia autoritade; or non ho polso di
contrastar a certi mezi uomini, e mi bisogna, al grande mio dispetto, a voto di
caso e di fortuna lasciar correre il mondo; e chi meglio la séguita, l'arrive,
e chi la vence, la goda. Ora son fatto qual quel vecchio esopico lione, a cui impune
l'asino dona di calci, e la simia fa de le beffe, e, quasi come ad un
insensibil ceppo, il porco vi si va a fricar la pancia polverosa. Là dove io
avevo nobilissimi oracoli, fani ed altari, ora, essendono quelli gittati per
terra ed indegnissimamente profanati, in loco loro han dirizzate are e statue a
certi ch'io mi vergogno nominare, perché son peggio che li nostri satiri e
fauni ed altri semebestie anzi più vili che gli crocodilli d'Egitto; perché
quelli pure, magicamente guidati, mostravano qualche segno de divinità; ma
costoro sono a fatto lettame de la terra. Il che tutto è provenuto per la
ingiuria della nostra nemica fortuna, la quale non l'ha eletti ed inalzati tanto
per onorar quelli, quanto per nostro vilipendio, dispreggio e vituperio
maggiore. Le leggi, statuti, culti, sacrificii e ceremonie, ch'io già per li
miei Mercurii ho donate, ordinati, comandati ed instituiti, son cassi ed
annullati; ed in vece loro si trovano le più sporche ed indegnissime
poltronarie che possa giamai questa cieca altrimente fengere, a fine che, come
per noi gli omini doventavano eroi, adesso dovegnano peggio che bestie. Al
nostro naso non ariva più fumo di rosto, fatto in nostro servizio da gli
altari; ma se pur tal volta ne viene appetito, ne fia mestiero d'andar a
sbramarci per le cocine, come dei patellari. E benché alcuni altari fumano
d'incenso (quod dat avara manus), a poco a poco quel fumo dubito che non
se ne vada in fumo, a fine che nulla rimagna di vestigio ancora delle nostre
sante instituzioni. Ben conoscemo per prattica, che il mondo è a punto come un
gagliardo cavallo, il quale molto ben conosce quando è montato da uno che non
lo può strenuamente maneggiare, lo spreggia, e tenta di toglierselo da la
schena; e gittato che l'ha in terra, lo viene a pagar di calci. Ecco, a me si
dissecca il corpo e mi s'umetta il cervello; mi nascono i tofi e mi cascano gli
denti; mi s'inora la carne e mi s'inargenta il crine; mi si distendeno le
palpebre e mi si contrae la vista; mi s'indebolisce il fiato e mi si rinforza la
tosse; mi si fa fermo il sedere e trepido il caminare; mi trema il polso e mi si
saldano le coste; mi s'assottigliano gli articoli e mi s'ingrossano le gionture:
ed in conclusione (quel che più mi tormenta), perché mi s'indurano gli talloni
e mi s'ammolla il contrapeso, l'otricello de la cornamusa mi s'allunga ed il
bordon s'accorta:
La mia Giunon di me non è gelosa,
La mia Giunon di me non ha più cura.
48 Del tuo Vulcano (lasciando gli altri dei da
canto) voglio che consideri tu medesima. Quello che con tanto vigore solea
percuotere la salda incudine, che a gli fragrosi schiassi, quali dall'ignivomo
Etna uscivano a l'orizonte. Eco dalle concavitadi del campano Vesuvio e del
sassoso Taburno, rispondeva, - adesso dove è la forza del mio fabro e tuo
consorte? Non è ella spinta? non è ella spinta? Forse che ha più nerbo da
gonfiar i folli per accendere il foco? forse ch'ha più lena d'alzar il gravoso
martello per battere l'infocato metallo? Tu ancora, mia sorella, se non credi ad
altri, dimandane al tuo specchio; e vedi come per le rughe che ti sono aggionte,
e per gli solchi che l'aratro del tempo t'imprime ne la faccia, porgi giorno per
giorno maggior difficultade al pittore, s'egli non vuol mentire, dovendoti
ritrare per il naturale. Ne le guancie, ove ridendo formavi quelle due fossette
tanto gentili, doi centri, doi punti in mezzo de le tanto vaghe pozzette,
facendoti il riso, che imblandiva il mondo tutto, giongere sette volte maggior
grazia al volto, onde (come da gli occhi ancora) scherzando scoccava gli tanto
acuti ed infocati strali Amore: adesso, cominciando da gli angoli de la bocca,
sino a la già commemorata parte, da l'uno e l'altro canto comincia a scuoprirsi
forma di quattro parentesi, che ingeminate par che ti vogliano, strengendo la
bocca, proibir il riso con quelli archi circonferenziali, ch'appaiono tra gli
denti ed orecchi, per farti sembrar un crocodillo. Lascio che, o ridi o non ridi,
ne la fronte il geometra interno, che ti dissecca l'umido vitale, e con far più
e più sempre accostar la pelle a l'osso, assottigliando la cute, ti fa
profondar la descrizione de le parallele a quattro a quattro, mostrandoti per
quelle il diritto camino, il qual ti mena come verso il defuntoro. - Perché
piangi Venere? perché ridi, Momo? disse, vedendo questo mostrar i denti, e
quella versar lacrime. Ancora Momo sa, quando un di questi buffoni (de quali
ciascuno suol porgere più veritadi di fatti suoi a l'orecchi del principe, che
tutto il resto de la corte insieme, e per quali per il più color, che non
ardiscono di parlare, sotto specie di gioco parlano, e fanno muovere e muovono
de propositi) disse che Esculapio ti avea fatta provisione di polvere di corno
di cervio e di conserva di coralli, dopo averti cavate due mole guaste tanto
secretamente, che ora non è pietruccia in cielo che nol sappia. Vedi, dunque,
cara sorella, come ne doma il tempo traditore, come tutti siamo suggetti alla
mutazione: e quel che più tra tanto ne afflige, è che non abbiamo certezza né
speranza alcuna di ripigliar quel medesimo essere a fatto, in cui tal volta
fummo. Andiamo, e non torniamo medesimi; e come non avemo memoria di quel che
eravamo, prima che fussemo in questo essere, cossì non possemo aver saggio di
quel che saremo da poi. Cossì, il timore, pietà e religione di noi, l'onore,
il rispetto e l'amore vanno via; li quali appresso la forza, la providenza, la
virtù, dignità, maestà e bellezza, che volano da noi, non altrimente che
l'ombra insieme col corpo, si parteno. La veritade sola con l'absoluta virtude
è inmutabile ed immortale: e se tal volta casca e si sommerge, medesima
necessariamente al suo tempo risorge, porgendogli il braccio la sua ancella
Sofia. Guardiamoci, dunque, di offendere del fato la divinitade, facendo torto a
questo gemino nume a lui tanto raccomandato e da lui tanto faurito. Pensiamo al
prossimo stato futuro, e non, come quasi poco curando il nume universale,
manchiamo d'alzare il nostro core ed affetto a quello elargitore d'ogni bene e
distributor de tutte l'altre sorti. Supplichiamolo che ne la nostra transfusione,
o transito, o metampsicosi, ne dispense felici genii: atteso che, quantunque
egli sia inesorabile, bisogna pure aspettarlo con gli voti o di essere
conservati nel stato presente, o di subintrar un altro megliore, o simile, o
poco peggiore. Lascio che l'esser bene affetto verso il nume superiore è come
un segno di futuri effetti favorevoli da quello; come chi è prescritto ad esser
uomo, è necessario ed ordinario ch'il destino lo guida, passando per il ventre
de la madre; il spirto predestinato ad incorporarsi in pesce, bisogna che prima
vegna attuffato a l'acqui: talmente a chi è per esser favorito da gli numi
conviene che passe per mezzo de buoni voti ed operazioni.
2 Orazione di Giove. -
Non aspettate, o Dei, che, secondo la mia consuetudine, v'abbia ad intonar ne
l'orecchio con uno artificioso proemio, con un terso filo di narrazione e con un
delettevole agglomeramento epilogale. Non sperate ornata tessitura di paroli,
ripolita infilacciata di sentenze, ricco apparato di eleganti propositi,
suntuosa pompa di elaborati discorsi e, secondo l'instituto di oratori, concetti
posti tre volte a la lima prima ch'una volta a la lingua: non hoc. Non
hoc ista sibi tempus spectacula poscit.
3 Credetemi, dei, perché credete il vero, già
dodici volte ha ripiene l'inargentate corna la casta Lucina, ch'io son stato in
la determinazione di far questa congregazione oggi, in questa ora e con tai
termini che vedete. Ed in questo mentre son stato più occupato sul considerar
quello che devo a nostro mal grado tacere, che mi sia stato lecito di premeditar
sopra quello che debbo dire.
4 Odo che vi maravigliate, perché a questo
tempo, rivocandovi da vostro spasso, v'abbia fatto citar alla congregazione e
dopo pranso a subitanio concilio. Vi sento mormorare, che in giorno festivo vi
vien tocco il core di cose seriose, e non è di voi chi a la voce de la tromba e
proposito de l'editto non sia turbato. Ma io, benché la raggione di queste
azioni e circostanze pende dal mio volere che l'ha possute instituire, e la mia
voluntà e decreto sia l'istessa raggione de la giustizia, tutta volta non
voglio mancar, prima che proceda ad altro, di liberarvi da questa confusione e
maraviglia. Tardi, dico, gravi e pesati denno essere gli proponimenti; maturo,
secreto e cauto deve essere il conseglio: ma l'essecuzione bisogna che sia
alata, veloce e presta. Però non credete, che intra il desinare qualche strano
umore m'abbia talmente assalito che, dopo pranso, mi tegna legato e vinto, onde
non a posta di raggione, ma per impeto di nettareo fumo proceda a l'azione; ma
dal medesimo giorno de l'anno passato cominciai a consultar entro di me quel
tanto che dovevo esseguire in questo giorno ed ora. Dopo pranso, dunque, perché
le nove triste non è costume d'apportarle a stomaco diggiuno; all'improviso,
perché so molto bene che non cossì come alla festa solete convenir volentieri
al conseglio, il quale è intensissimamente da molti di voi fuggito: mentre chi
lo teme per non farsi di nemici, chi per incertezza di chi vince e di chi perde,
chi per timore ch'il suo conseglio non sia tra dispreggiati, chi per dispetto
per quel che il suo parere tal volta non è stato approvato, chi per mostrarsi
neutrale nelle cause pregiudiciose o de l'una o de l'altra parte, chi per non
aver occasione d'aggravarsi la conscienza: chi per una, chi per un'altra causa.
5 Or vi ricordo, o fratelli e figli, che a
quelli, ai quali il fato ha dato di posser gustare l'ambrosia e bevere il
nettare e goder il grado della maestade, è ingionto ancora di comportar tutte
gravezze che quella apporta seco. Il diadema, la mitra, la corona, senza
aggravarla, non onorano la testa; il manto regale ed il scettro non adornano
senza impacciar il corpo. Volete sapere perché io a ciò abbia impiegato il
giorno di festa, e specialmente tale quale è la presente? Pare a voi, dunque,
pare a voi che sia degno giorno di festa questo? E credete voi che questo non
deve essere il più tragico giorno di tutto l'anno? Chi di voi, dopo ch'arrà
ben pensato, non giudicarà cosa vituperosissima di celebrar la commemorazion de
la vittoria contra gli giganti a tempo che da gli sorgi de la terra siamo
dispreggiati e vilipesi? Oh che avesse piaciuto a l'omnipotente irrefragabil
fato, che allora fussemo stati discacciati dal cielo, quando la nostra rotta per
la dignità e virtù di nemici non era vituperosa tanto; perché oggi siamo nel
cielo peggio che se non vi fussemo, peggio che se ne fussemo stati discacciati,
atteso che quel timor di noi, che ne rendea tanto gloriosi, è spento; la gran
riputazione de la maestà, providenza e giustizia nostra è cassa; e quel che è
peggio, non abbiamo facultà e forza di riparar al nostro male, di vendicar le
nostre onte; perché la giustizia con la quale il fato governa gli governatori
del mondo, ne ha a fatto tolta quella autorità e potestà la quale abbiamo
tanto male adoperata, discoperti e nudati avanti gli occhi di mortali e fattigli
manifesti i nostri vituperii; e fa che il cielo medesimo con cossì chiara
evidenza, come chiare ed evidenti son le stelle, renda testimonianza de misfatti
nostri. Perché vi si vedeno aperto gli frutti, le reliquie, gli riporti, le
voci, le scritture, le istorie di nostri adulterii, incesti, fornicazioni, ire,
sdegni, rapine ed altre iniquitadi e delitti; e che per premio di errori abbiamo
fatto maggiori errori, inalzando al cielo i trionfi de vizii e sedie de
sceleragini, lasciando bandite, sepolte e neglette ne l'inferno le virtudi e la
giustizia.
6 E per cominciare da cose minori, come da
peccati veniali: perché solo il Deltaton, dico quel triangolo, ha ottenute
quattro stelle appresso il capo di Medusa, sotto le natiche di Andromeda e sopra
le corna del Montone? per far vedere la parzialità, che si trova tra gli dei.
Che fa il Delfino, gionto al Capricorno da la parte settentrionale, impadronito
di quindeci stelle? vi è, a fine che si possa contemplar la assumpzione di
colui, che è stato buon sanzale, per non dir ruffiano, tra Nettuno ed Amfitrite.
Perché le sette figlie d'Atlante soprasiedeno appresso il collo del bianco
Toro? per essersi, con lesa maestà di noi altri dei, vantato il padre di aver
sostenuti noi ed il cielo ruinante; o pur per aver in che mostrar la sua
leggerezza i numi, che vi l'han condotte. Perché Giunone ha ornato il Granchio
di nove stelle, senza le quattro altre circonstanti che non fanno imagine? solo
per un capriccio, perché forficò il tallone ad Alcide a tempo che combatteva
con quel gigantone. Chi mi saprà dar altra caggione che il semplice ed
irrazional decreto de' superi, perché il Serpentauro, detto da noi Greci
Ofiulco, ottiene con la sua colobrina il campo di trentasei stelle? Qual grave
ed opportuna caggione fa al Sagittario usurparsi trenta ed una stella? perché
fu figlio di Euschemia, la quale fu nutriccia o baila de le Muse. Perché non
più tosto a la madre? perché lui oltre seppe ballare e far i giuochi de le
bagattelle. Aquario perché ha quaranta cinque stelle appresso il Capricorno?
forse, perché salvò la figlia di Venere Facete nel stagno? Perché non altri,
a gli quali noi dei siamo tanto ubligati, che sono sepolti in terra, ma più
tosto costui, ch'ha fatto un serviggio indegno di tanta ricompensa, è stato
conceduto quel spacio? perché cossì ha piaciuto a Venere.
7 Gli Pesci, benché meritino qualche mercede
per aver dal fiume Eufrate cacciato quell'ovo, che, covato da la colomba,
ischiuse la misericordia de la dea di Pafo, tutta volta paionvi soggetti d'ottenir
l'ornamento di trentaquattro stelle, senza altre quattro circostanti, ed abitare
fuor de l'acqui nella region più nobile del cielo? Che fa Orione, tutto armato
a scrimir solo, con le spalancate braccia, impiastrato di trent'otto stelle, ne
la latitudine australe verso il Tauro? vi sta per semplice capriccio di Nettuno,
a cui non ha bastato di privilegiarlo su l'acqui, dove ha il suo legitimo
imperio; ma oltre, fuor del suo patrimonio, si vuol con sì poco proposito
prevalere. La Lepre, il Cane e la Cagnolina sapete ch'hanno quarantatré stelle
ne la parte meridionale, non per altro, che per due o tre frascarie non minori
che quella, che vi fa essere appresso la Idra, la Tassa ed il Corvo, che
ottegnono quarant'ed una stella, per memoria di quel, che mandâro una volta gli
dei il Corvo a prender l'acqua da bere; il qual per il camino vedde un fico, ch'avea
le fiche o gli fichi (perché l'uno e l'altro geno è approvato da grammatici,
dite come vi piace): per gola quell'ucello aspettò che fussero maturi, de quali
al fine essendosi pasciuto, si ricordò de l'acqua; andò per empir la lancella,
veddevi il dragone, abbe paura, e ritornò con la giarra vota agli dei. Li
quali, per far chiaro quanto hanno ben impiegato l'ingegno ed il pensiero, hanno
descritta in cielo questa istoria di sì gentile ed accomodato servitore. Vedete
quanto bene abbiamo speso il tempo, l'inchiostro e la carta. La Corona austrina,
che sotto l'arco e piedi di Sagittario si vede ornata di tredeci topacii
lucenti, chi l'ha predestinata ad essere eternamente senza testa? Che bel vedere
volete voi che sia di quel pesce Nozio, sotto gli piedi d'Aquario e Capricorno,
distinto in dodici lumi, con sei altri che gli sono in circa? De l'Altare, o
turribulo o fano o sacrario, come vogliam dire, io non parlo; perché giamai li
convenne cossì bene d'essere in cielo, se non ora, che quasi non ha dove essere
in terra; ora vi sta bene, come una reliquia, o pur come una tavola della
sommersa nave de la religion e colto di noi.
8 Del Capricorno non dico nulla, perché mi par
dignissimo d'ottenere il cielo, per averne fatto tanto beneficio, insegnandoci
la ricetta, con cui potessimo vencere il Pitone; perché bisognava, che gli dei
si trasformassero in bestie, se volevano aver onor di quella guerra: e ne ha
donata dottrina, facendoci sapere che non si può mantener superiore chi non si
sa far bestia. Non parlo de la Vergine; perché, per conservar la sua
verginità, in nessun loco sta sicura se non in cielo, avendo da qua un Leone e
da là un Scorpione per sua guardia. La poverina è fuggita da terra, perché
l'eccessiva libidine de le donne, le quali, quanto più son pregne, tanto più
sogliono appetere il coito, fa che non sia sicura di non esser contaminata, anco
se si trovasse nel ventre de la madre; però goda i suoi vintisei carbuncoli con
quelli altri sei, che li sono attorno. Circa l'intemerata maestà di que' doi
Asini che luceno nel spacio di Cancro, non oso dire, perché di questi
massimamente per dritto e per raggione è il regno del cielo: come con molte
efficacissime raggioni altre volte mi propono di mostrarvi, perché di tanta
materia non ardisco parlare per modo di passaggio. Ma di questo sol mi doglio e
mi lamento assai, che questi divini animali sieno stati sì avaramente trattati,
non facendogli essere, come in casa propria, ma nell'ospizio di quel retrogrado
animale aquatico, e non munerandoli più che de la miseria di due stelle,
donandone una a l'uno e l'altra all'altro; e quelle non maggiori che de la
quarta grandezza.
9 De l'Altare, dunque, Capricorno, Vergine ed
Asini (benché prendo a dispiacere ch'ad alcuni di questi non essendo lor
trattati secondo la dignità, in loco di essere fatto onore, forse gli è stato
fatta ingiuria) or al presente non voglio definir cosa alcuna; ma torno a gli
altri suppositi, che vanno per la medesima bilancia con gli sopradetti.
10 Non volete voi che murmurino gli altri
fiumi, che sono in terra, per il torto che gli vien fatto? Atteso che, qual
raggion vuole che più tosto l'Eridano deve aver le sue trenta e quattro
lucciole, che si veggono citra ed oltre il tropico di Capricorno, più tosto che
tanti altri non meno degni e grandi, ed altri più degni e maggiori? Pensate che
basta dire che le sorelle di Fetone v'abbiano la stanza? O forse volete che
vegna celebrato, perché ivi per mia mano cadde il fulminato figlio d'Apollo,
per aver il padre abusato del suo ufficio, grado ed autoritade? Perché il
cavallo di Bellerofonte è montato ad investirsi de vinti stelle in cielo,
essendo che sta sepolto in terra il suo cavalcatore? A che proposito quella
saetta, che per il splendor di cinque stelle, che tiene inchiodate, luce
prossima a l'Aquila e Delfino? Certo, che se gli fa gran torto che non stia
vicina al Sagittario a fin che se ne possa servire, quando arrà tirato quella
che tiene in punta; o pur non appaia in parte dove possa rendere qualche raggion
di sé. Apresso bramo intendere, tra il spoglio del Leone e la testa di quel
bianco e dolce Cigno, che fa quella lira fatta di corna di bue in forma di
testugine? Vorrei sapere, se la vi dimore per onor de la testugine, o de le
corna, o de la lira, o pur perché ognun veda la mastria di Mercurio che l'ha
fatta, per testimonio de la sua dissoluta e vana iattanzia?
11 Ecco, o dei, l'opre nostre; ecco le egregie
nostre manifatture, con le quali ne rendemo onorati al cielo! Vedete che belle
fabriche, non molto dissimili a quelle che sogliono far gli fanciulli, quando
contrattano la luta, la pasta, le miscuglie, le frasche e festuche, tentando
d'imitare l'opre di maggiori! Pensate, che non doviamo render raggione e conto
di queste? Possete persuadervi, chede l'opre ociose sarremo meno richiesti,
interrogati, giudicati e condannati, che dell'ociose paroli? La dea Giustizia,
la dea Temperanza, la dea Constanza, la dea Liberalitade, la dea Pazienza, la
dea Veritade, la dea Mnemosine, la dea Sofia e tante altre dee e dei vanno
banditi non solo dal cielo, ma ed oltre da la terra; ed in loco loro e ne gli
eminenti palaggi, edificati da l'alta Providenza per residenza loro, vi si
veggono delfini, capre, corvi, serpenti ed altre sporcarie, levitadi, capricci e
legerezze. Se vi par questa cosa inconveniente, e ne tocca il rimorso de la
conscienza per il bene che non abbiam fatto; quanto più dovete meco considerare
che doviamo esser punti e trafitti per le gravissime sceleraggini e delitti, che
comessi avendono, non solamente non ne siamo ripentiti ed emendati, ma oltre ne
abbiamo celebrati triomfi e drizzati come trofei, non in un fano labile e
ruinoso, non in tempio terrestre, ma nel cielo e nelle stelle eterne. Si può
patire, o dei, e facilmente si condona a gli errori, che son per fragilità, e
per non molto giudiciosa levità; ma qual misericordia, qual pietate può
rivoltarsi a quelli, che son commessi da color che, essendono posti presidenti
nella giustizia, in mercede di criminalissimi errori, contribuiscono maggiori
errori con onorare, premiar ed essaltar al cielo gli delitti insieme con gli
delinquenti? Per qual grande e virtuoso fatto Perseo av'ottenute vintesei
stelle? Per aver con gli talari e scudo di cristallo, che lo rendeva invisibile,
in serviggio de l'infuriata Minerva ammazzate le Gorgoni che dormivano, e
presentatogli il capo di Medusa. E non ha bastato che vi fusse lui, ma per lunga
e celebre memoria bisognava che vi comparisse la moglie Andromeda con le sue
vintitré, il suo genero Cefeo con le sue tredeci, che espose la figlia
innocente alla bocca del Ceto per capriccio di Nettuno, adirato solamente
perché la sua madre Cassiopea pensava essere più bella che le Nereidi. E però
anco la madre vi si vede residente in catedra, ornata di tredeci altre stelle
ne' confini de l'Artico circolo. Quel padre di agnelli con la lana d'oro, con le
sue diece ed otto stelle senza l'altre sette circonstanti, che fa balando sul
punto equinoziale? E forse ivi per predicar la pazzia e sciocchezza del re di
Colchi, l'impudicizia di Medea, la libidinosa temeritade di Giasone e l'iniqua
providenza di noi altri? Que' doi fanciulli, che nel signifero succedeno al
Toro, compresi da diece e otto stelle, senza altre sette circonstanti informi,
che mostrano di buono o di bello in quella sacra sedia, eccetto che il reciproco
amore di doi bardassi? Per qual raggione il Scorpione ottiene il premio di venti
ed una stelle, senza le otto che son ne le chele, e le nove che sono circa lui,
e tre altre informi? Per premio d'un omicidio ordinato dalla leggerezza ed
invidia di Diana, che gli fece uccidere l'emulo cacciator Orione. Sapete bene
che Chirone con la sua bestia ottiene nella australe latitudine del cielo
sessanta e sei stelle per esser stato pedante di quel figlio, che nacque dal
stupro di Peleo e.Teti.
12 Sapete che la corona di Ariadna, nella quale
risplendeno otto stelle, ed è celebrata là, avanti il petto di Boote e le
spire de l'angue, non v'è se non in commemorazione perpetua del disordinato
amor del padre Libero, che s'imbracciò la figlia del re di Creta, rigettata dal
suo stuprator Teseo.
13 Quel Leone, che nel core porta il basilisco,
e che ottiene il campo di trenta e cinque stelle, che fa continuo al Cancro? Evi
forse per esser gionto a quel suo conmilitone e suo conservo de l'irata Giunone,
che lo apparecchiò vastatore del Cleoneo paese, a fine che, a mal grado di
quello, aspetasse l'advenimento del strenuo Alcide? Ercole invitto, laborioso
mio figlio, che col suo spoglio di leone e la sua mazza par che si difenda le
vinti ed otto stelle, quali con più che mai altri abbia fatto tanti gesti
eroici s'ha meritate, pure, a dire il vero, non mi par conveniente che tegna
quel loco, onde il suo geno pone avanti gli occhi della giustizia il torto fatto
al nodo coniugale della mia Giunone per me e per la pellice Megara, madre di
lui. La nave di Argo, nella quale sono inchiodate quarantacinque risplendenti
stelle, ne l'ampio spacio vicino al circolo Antartico, evi ad altro fine che per
eternizare la memoria del grande errore che commese la saggia Minerva, che
mediante quella instituì gli primi pirati a fine che, non meno che la terra,
avesse gli suoi solleciti predatori il mare? E per tornar là dove s'intende la
cintura del cielo, perché quel Bove, verso il principio del zodiaco, ottiene
trenta e due chiare stelle, senza quella ch'è nella punta del corno
settentrionale, ed undeci altre che son chiamate informi? Per ciò che è quel
Giove (oimè!) che rubbò la figlia ad Agenore, la sorella a Cadmo. Che Aquila
è quella che nel firmamento s'usurpa l'atrio di quindeci stelle, oltre
Sagittario, verso il polo? Lasso, è quel Giove che ivi celebra il trionfo del
rapito Ganimede e di quelle vittoriose fiamme ed amori. Quella Orsa, quella
Orsa, o dei, perché nella più bella ed eminente parte del mondo, come in una
alta specola, come in una più aprica piazza e più celebre spettacolo, che ne
l'universo presentar si possa a gli occhi nostri, è stata messa? Forse a fine
che non sia occhio, che non veda l'incendio ch'assalse il padre de gli dei
appresso l'incendio de la terra per il carro di Fetonte, quando in quel mentre
ch'andavo guardando le ruine di quel fuoco, e riparando a quelle con richiamare
i fiumi che timidi e fugaci erano ristretti a le caverne, e ciò effettuando nel
mio diletto Arcadio paese: ecco, altro fuoco m'accese il petto, che dal splendor
del volto de la vergine Nonacrina procedendo, passommi per gli occhi, scorsemi
nel core, scaldommi l'ossa e penetrommi dentro le midolla; di sorte che non fu
acqua né remedio che potesse dar soccorso e refrigerio all'incendio mio. In
questo foco fu il strale che mi trafisse il core, il laccio che mi legò l'alma,
e l'artiglio che mi tolse a me e diemmi in preda alla beltà di lei. Commesi il
sacrilego stupro, violai la compagnia di Diana e fui a la mia fidelissima
consorte ingiurioso; per la quale in forma e specie d'una Orsa presentandomise
la bruttura del fedo eccesso mio, tanto si manca che da quella abominevol vista
io concepesse orrore, che sì bello mi parve quel medesimo mostro e sì mi
soprapiacque, che volsi ch'il suo vivo ritratto fusse essaltato nel più alto e
magnifico sito de l'architetto del cielo: quell'errore, quella bruttezza, quell'orribil
macchia che sdegna ed abomina lavar l'acqua de l'Oceano, che Teti, per tema di
contaminar l'onde sue, non vuol che punto s'avicine verso la sua stanza,
Dictinna l'ha vietato l'ingresso di suoi deserti per tema di profanar il sacro
suo collegio, e per la medesima caggione gli niegano i fiumi le Nereidi e Ninfe.
14 Io, misero peccatore, dico la mia colpa,
dico la mia gravissima colpa, in conspetto de l'intemerata absoluta giustizia, e
vostro, che sin al presente ho molto gravemente peccato, e per il mal essempio
ho porgiuta ancor a voi permissione e facultà di far il simile; e con questo
confesso che degnamente io insieme con voi siamo incorsi il sdegno del fato, che
non ne fa più essere riconosciuti per dei, e mentre abbiamo a le sporcarie de
la terra conceduto il cielo, ha dispensato ch'a noi fussero cassi gli tempii,
imagini e statue, ch'avevamo in terra; a fine che degnamente da alto vegnano
depressi quelli, quali indegnamente han messe in alto le cose vili e basse.
15 Oimè, dei, che facciamo? che pensiamo? che
induggiamo? Abbiamo prevaricato, siamo stati perseveranti ne gli errori, e
veggiamo la pena gionta e continuata con l'errore. Provedemo, dunque, provedemo
a' casi nostri; perché, come il fato ne ha negato il non posser cadere, cossì
ne ha conceduto il possere risorgere; però come siamo stati pronti al cascare,
cossì anco siamo apparecchiati a rimetterci su gli piedi. Da quella pena nella
quale mediante l'errore siamo incorsi, e peggior della quale ne potrebe
sopravenire, mediante la riparazione, che sta nelle nostre mani, potremo senza
difficultade uscire. Per la catena de gli errori siamo avinti; per la mano della
giustizia ne disciogliamo. Dove la nostra levità ne ha deprimuti, indi bisogna
che la gravità ne inalze. Convertiamoci alla giustizia, dalla quale essendo noi
allontanati, siamo allontanati da noi stessi; di sorte che non siamo più dei,
non siamo più noi. Ritorniamo dunque a quella, se vogliamo ritornare a noi.
16 L'ordine e maniera di far questo riparamento
è che prima togliamo da le nostre spalli la grieve soma d'errori che ne
trattiene; rimoviamo d'avanti gli nostri occhi il velo de la poca
considerazione, che ne impaccia; isgombramo dal core la propria affezione, che
ne ritarda; gittiamo da noi tutti que' vani pensieri che ne aggravano;
adattiamoci a demolire le machine di errori ed edificii di perversitade che
impediscono la strada ed occupano il camino; cassiamo ed annulliamo, quanto
possibil fia, gli trionfi e trofei di nostri facinorosi gesti, a fine che appaia
nel tribunal della giustizia verace pentimento di commessi errori. Su, su, o
dei, tolgansi dal cielo queste larve, statue, figure, imagini, ritratti,
processi ed istorie de nostre avarizie, libidini, furti, sdegni, dispetti ed
onte. Che passe, che passe questa notte atra e fosca di nostri errori, perché
la vaga aurora del novo giorno de la giustizia ne invita; e disponiamoci di
maniera tale al sole, ch'è per uscire, che non ne discuopra cossì come siamo
immondi. Bisogna mondare e renderci belli; non solamente noi, ma anco le nostre
stanze e gli nostri tetti fia mestiero che sieno puliti e netti: doviamo
interiore- ed esteriormente ripurgarci. Disponiamoci, dico, prima nel cielo che
intellettualmente è dentro di noi, e poi in questo sensibile che corporalmente
si presenta a gli occhi. Togliemo via dal cielo de l'animo nostro l'Orsa della
difformità, la Saetta de la detrazione, l'Equicolo de la leggerezza, il Cane de
la murmurazione, la Canicola de l'adulazione. Bandiscasi da noi l'Ercole de la
violenza, la Lira de la congiurazione, il Triangolo de l'impietà, il Boote de
l'inconstanza, il Cefeo de la durezza. Lungi da noi il Drago de l'invidia, il
Cigno de l'imprudenza, la Cassiopea de la vanità, l'Andromeda de la desidia, il
Perseo della vana sollecitudine. Scacciamo l'Ofiulco de la maldizione, l'Aquila
de l'arroganza, il Delfino de la libidine, il Cavallo de l'impacienza, l'Idra de
la concupiscenza. Togliemo da noi il Ceto de l'ingordiggia, l'Orione de la
fierezza, il Fiume de le superfluitadi, la Gorgone de l'ignoranza, la Lepre del
vano timore. Non ne sia oltre dentro il petto l'Argonave de l'avarizia, la Tazza
de l'insobrietà, la Libra de l'iniquità, il Cancro del mal regresso, il
Capricorno de la decepzione. Non fia che ne s'avicine il Scorpio de la frode, il
Centauro de la animale affezione, l'Altare de la superstizione, la Corona de la
superbia, il Pesce de l'indegno silenzio. Con questi caggiano gli Gemini de la
mala familiaritade, il Toro de la cura di cose basse, l'Ariete de l'inconsiderazione,
il Leone de la Tirannia, l'Aquario de la dissoluzione, la Vergine de
l'infruttuosa conversazione, il Sagittario de la detrazione. Se cossì, o dei,
purgaremo la nostra abitazione, se cossì renderemo novo il nostro cielo, nove
saranno le costellazioni ed influssi, nove l'impressioni, nove fortune; perché
da questo mondo superiore pende il tutto, e contrarii effetti sono dependenti da
cause contrarie. O felici, o veramente fortunati noi, se farremo buona colonia
del nostro animo e pensiero! A chi de voi non piace il presente stato, piaccia
il presente conseglio. Se vogliamo mutar stato, cangiamo costumi. Se vogliamo
che quello sia buono e megliore, questi non sieno simili o peggiori. Purghiamo
l'interiore affetto, atteso che da l'informazione di questo mondo interno non
sarà difficile di far progresso alla riformazione di questo sensibile ed
esterno. La prima purgazione, o dei, veggio che la fate, veggio che l'avete
fatta; la vostra determinazione io la veggio; ho vista la vostra determinazione,
la è fatta; ed è subito fatta, perché la non è soggetta a' contrapesi del
tempo.
17 Or su, procediamo alla seconda purgazione.
Questa è circa l'esterno, corporeo, sensibile e locato. Però bisogna che vada
con certo discorso, successione ed ordine; però bisogna aspettare, conferir una
cosa con l'altra, comparar questa raggione con quella, prima che determinare;
atteso che circa le cose corporali, come in tempo è la disposizione, cossì non
può essere, come in uno instante, l'essecuzione. Eccovi dunque il termine di
tre giorni, dove non avete da decidere e determinare infra di voi, se questa
riforma si debba fare o non; perché per ordinanza del fato, subito che vi l'ho
proposta, insieme l'avete giudicata convenientissima, necessaria ed ottima; e
non in segno esteriore, figura ed ombra, ma realmente ed in verità veggio il
vostro affetto, come voi reciprocamente vedete il mio; e non men subito ch'io
v'ho tocco l'orecchio col mio proponimento, voi col splendor del consentimento
vostro m'avete tocchi gli occhi. Resta dunque che pensiate e conferite infra di
voi circa la maniera, con cui s'ha da provedere a queste cose che si toglieno
dal cielo, per le quali fia mestiero procacciare ed ordinar altri paesi e
stanze; ed oltre, come s'hanno da empire queste sedie a fin che il cielo non
rimagna deserto, ma megliormente colto ed abitato che prima. Passati che saranno
gli tre giorni, verrete premeditati in mia presenza circa loco per loco e cosa
per cosa, acciò che, non senza ogni possibile discussione, conveniamo il quarto
giorno a determinare e pronunziar la forma di questa colonia. Ho detto.
18 Cossì, o Saulino, il padre Giove toccò
l'orecchio, accese il spirto e commosse il core del Senato e Popolo celeste, che
lui medesimo apertamente ne' volti e gesti s'accorse, mentre orava, che nella
mente loro era conchiuso e determinato quel tanto che da lui lor venia proposto.
Avendo dunque fatta la ultima clausola ed imposto silenzio al suo dire il gran
Patriarca degli dei, tutti con una voce e con un tuono dissero: - Molto
volentieri, o Giove, consentemo d'effettuar quel tanto che tu hai proposto e
veramente ha predestinato il fato. - Qua succese il fremito de la moltitudine,
qua apparendo segno d'una lieta risoluzione, là d'un volenteroso ossequio, qua
d'un dubio, là d'un pensiero, qua un applauso, là un scrollar di testa di
qualche interessato, ivi una specie di vista, e quivi un'altra, sin tanto che,
gionta l'ora di cena, chi da questo lato si retirò, e chi da quell'altro.
19 \ SAUL.\ Cose di non poco momento, o Sofia!
2 Appresso apre la bocca il magno protoparente,
e fassi in cotal tenore udire: - Se gloriosa, o dei, fu la nostra vittoria
contra gli giganti, che in breve spacio di tempo risorsero contra di noi, che
erano nemici stranieri ed aperti, che ne combattevano solo da l'Olimpo, e che
non possevano né tentavano altro che de ne precipitar dal cielo; quanto più
gloriosa e degna sarà quella di noi stessi, li quali fummo contra lor
vittoriosi? Quanto più degna, dico, e gloriosa è quella di nostri affetti, che
tanto tempo han trionfato di noi, che sono nemici domestici ed interni che ne
tiranneggiano da ogni lato, e che ne hanno trabalsati e smossi da noi stessi?
3 Se dunque di festa degno ne ha parso quel
giorno che ne partorì vittoria tale di quale il frutto in un momento disparve,
quanto più festivo dev'essere questo di cui la fruttuosa gloria sarà eviterna
per gli secoli futuri? Séguite, dunque, d'essere festivo il giorno de la
vittoria; ma da quel che si diceva de la vittoria de giganti, dicasi de la
vittoria de gli Dei, perché in esso abbiamo vinti noi medesimi. Instituiscasi
oltre festivo il giorno presente nel quale si ripurga il cielo, e questo sia
più sollenne a noi, che abbia mai possuto essere a gli Egizii la trasmigrazione
del popolo leproso, ed a gli Ebrei il transito dalla Babilonica cattivitade.
Oggi il morbo, la peste, la lepra si bandisce dal cielo a gli deserti; oggi vien
rotta quella catena di delitti e fracassato il ceppo de gli errori, che ne
ubligano al castigo eterno. Or dunque, essendo voi tutti di buona voglia per
procedere a questa riforma, ed avendo, come intendo, tutti premeditato il modo
con cui si debba e possa venire al fatto; acciò che queste sedie non rimagnano
disabitate, ed agli trasmigranti sieno ordinati luoghi convenienti, io
cominciarò a dire il mio parere circa uno per uno; e prodotto che sarà quello,
se vi parrà degno d'essere approvato, ditelo; se vi sembrarà inconveniente,
esplicatevi; se vi par che si possa far meglio, dechiaratelo; se da quello si
deve togliere, dite il vostro parere; se vi par che vi si deve aggiongere,
fatevi intendere; perché ognuno ha plenaria libertà di proferire il suo voto;
e chiunque tace, se intende affirmare. - Qua assorsero alquanto tutti gli dei, e
con questo segno ratificâro la proposta.
4 - Per dar, dunque, principio e cominciar da
capo, disse Giove, veggiamo prima le cose che sono da la parte boreale, e
provediamo circa quelle; e poi a mano a mano per ordine faremo progresso sin al
fine. Dite voi: che vi pare, e che giudicate di quella Orsa? - Gli dei, alli
quali toccavano le prime voci, commesero a Momo che rispondesse; il qual disse:
- Gran vituperio, o Giove, e più grande che tu medesimo possi riconoscere, che
nel luogo del cielo più celebre, là dove Pitagora (che intese il mondo aver le
braccia, gambe, busto e testa) disse essere la parte superior di quello, alla
quale è contraposto l'altro estremo che dice essere l'infima regione; iuxta quello
che cantò un Poeta di quella setta:
Hic vertex nobis semper sublimis, at illum
Sub pedibus Styx atra videt manesque profundi:
là dove gli marinaii si consultano negli devii ed incerti camini del mare, là
verso dove alzano le mani tutti gli travagliati che patiscono tempeste: là
verso dove ambivano gli giganti: là dove la generazion fiera di Belo facea
montare la torre di Babelle: là dove gli maghi del specchio calibeo cercano gli
oracoli de Floron, uno de' grandi principi de gli arctici spiriti: là dove gli
Cabalisti dicono che Samaele volse inalzare il solio per farsi assomigliante al
primo altitonante; hai posto questo brutto animalaccio, il quale, non con una
occhiata, non con un rivoltato mustaccio, non con qualche imagine di mano, non
con un piede, non con altra meno ignobil parte del corpo, ma con una coda (che
contra la natura de l'orsina specie volse Giunone che gli rimanesse attaccata
dietro), quasi come un indice degno di tanto luogo, fai che vegna a mostrar a
tutti terrestri, maritimi e celesti contemplatori il polo magnifico e cardine
del mondo. Quanto, dunque, facesti male de vi la inficcare, tanto farai bene di
levarnela; e vedi di farne intendere dove la vuoi mandare, e che cosa vuoi ch'in
suo loco succeda. - Vada, disse Giove, dove a voi altri pare e piace, o a gli
Orsi d'Inghilterra, o a gli Orsini o Cesarini di Roma, se volete che stia in
città a bell'aggio. - A gli claustri di Bernesi vorei che la fusse
impriggionata, disse Giunone. - Non tanto sdegno, mia moglie, replicò Giove;
vada dove si vuole, purché sia libera e lasce quel loco nel quale, per essere
la sedia più eminente, voglio che faccia la sua residenza la Veritade; perché
là le unghie de la detrazione non arivano, il livore de l'invidia non avelena,
le tenebre de l'errore non vi profondano. Ivi starà stabile e ferma; là non
sarà exagitata da flutti e da tempeste; ivi sarà sicura guida di quelli che
vanno errando per questo tempestoso pelago d'errori; ed indi si mostrarà chiaro
e terso specchio di contemplazione. -Disse il padre Saturno: - Che farremo di
quella Orsa maggiore? Propona Momo. - E lui disse: - Vada, perché la è
vecchia, per donna di compagna di quella minore giovanetta; e vedete che non gli
dovegna roffiana; il che se accaderà, sia condannata ad servir a qualche
mendico, che con andarla mostrando e con farla cavalcare da fanciulli ed altri
simili, per curar la febre quartana ed altre picciole infirmitadi, possa
guadagnar da vivere per lui e lei. -Dimanda Marte: - Che farremo di quel nostro
Draggonaccio, o Giove? - Dica Momo, - rispose il padre. E quello: - La è una
disutile bestia, e che è meglio morta che viva. Però, se vi pare, mandiamola
ne l'Ibernia, o in un'isola de l'Orcadi a pascere. Ma guardate bene, ché con la
coda è dubio che non faccia qualche ruina di stelle con farle precipitar in
mare. - Rispose Apolline: - Non dubitar, o Momo: perché ordinarò a qualche
Circe o Medea, che con quei versi con gli quali si seppe addormentare quando era
guardiano de le poma d'oro, adesso di nuovo insoporato sia trasportato pian
pianino in terra. E non mi par che debba morire, ma si vada mostrando ovunque è
barbara bellezza: perché le poma d'oro saranno la beltade, il drago sarà la
fierezza, Giasone sarà l'amante, l'incanto ch'addormenta il drago, sarà che
Non è sì duro cor che proponendo,
Tempo aspettando, piangendo ed amando,
E talvolta pagando, non si smuova:
Né sì freddo voler, che non si scalde.
5 Che cosa vuoi che succeda al suo luogo, o
padre? - La prudenza, rispose Giove, la quale deve essere vicina alla Veritade;
perché questa non deve maneggiarsi, moversi ed adoperarsi senza quella, e
perché l'una senza la compagnia de l'altra non è possibile che mai profitte o
vegna onorata. - Ben provisto, - dissero i dei. Soggionse Marte: - Quel Cefeo,
quando era re, malamente seppe menar le braccia per aggrandir quel regno che la
fortuna gli porse. Ora, non è bene che qua, in quel modo che fa, spandendo di
tal sorte le braccia ed allargando i passi, si faccia cossì la piazza grande in
cielo. - È bene, dunque, disse Giove, che se gli dia da bere l'acqua di Lete, a
fin che si dismentiche, ponendo in oblio la terrena e celeste possessione, e
rinasca un animale che non abbia né gambe né braccia. - Cossì deve essere,
soggionsero li dei: ma che in loco suo succeda la Sofia, perché la poverina
deve anch'ella participar de gli frutti e fortune de la Veritade, sua
indissociabile compagna, con la quale sempre ha comunicato nelle angustie,
afflizioni, ingiurie e fatiche; oltre che, se non è costei che li coadministre,
non so come ella potrà essere mai gradita ed onorata. - Molto volentieri, disse
Giove, lo accordo, e vi consento o Dei; perché ogni ordine e raggione il vuole;
e massime, perché malamente crederei aver reposta quella nel suo luogo senza
questa, ed ivi non si potrebe trovar contenta, lontana della sua tanto amata
sorella e diletta compagna.
6 - De l'Arctofilace, disse Diana, che, sì ben
smaltato di stelle, guida il carro, che credi, Momo, che si debba fare? -
Rispose: - Per esser lui quel Arcade, frutto di quel sacrilego ventre, e quel
generoso parto che rende testimonio ancora de gli orrendi furti del gran padre
nostro, deve partirsi da qua: or provedete voi de la sua abitazione. -Disse
Apolline: - Per esser figlio di Calisto, séguite la madre! - Soggionse Diana: -
E perché fu cacciatore d'orsi, séguite la madre, con questo che non gli ficchi
qualche punta di partesana adosso. - Aggiunse Mercurio: - E perché vedete, che
non sa far altro camino, vada pur sempre guardando la madre, la quale se ne
devria ritornare all'Erimantide selve. - Cossì sarà meglio, disse Giove: e
perché la meschina fu violata per forza, io voglio riparar al suo danno, da
quel loco rimettendola, se cossì piace a Giunone ancora, nella sua pristina
bella figura. - Mi contento, disse Giunone, quando prima l'arrete rimessa nel
grado della sua verginità, e per consequenza in grazia de Diana. - Non parliamo
più di questo per ora, disse Giove; ma veggiamo che cosa vogliamo far succedere
al luogo di costui. - Dopo fatte molte e molte discussioni: - Ivi, sentenziò
Giove, succeda la Legge, perché questa ancora è necessario che sia in cielo,
atteso che cossì questa è figlia della Sofia celeste e divina, come
quell'altra è figlia de l'inferiore, in cui questa Dea manda il suo influsso ed
irradia il splendor del proprio lume, in quel mentre che va per gli deserti e
luoghi solitarii de la terra. - Ben disposto, o Giove, disse Pallade; perché
non è vera, né buona legge quella che non ha per madre la Sofia, e per padre
l'intelletto razionale; e però là questa figlia non deve star lungi da la sua
madre; ed a fin che da basso contempleno gli uomini come le cose denno essere
ordinate appreso loro, si proveda qua in questa maniera, se cossì piace a
Giove. Appresso séguita la sedia della corona Boreale, fatta di safiro,
arrichita di tanti lucidi diamanti, e che fa quella bellissima prospettiva con
quattro e quattro, che son otto, carbuncoli ardenti. Questa, per esser cosa
fatta a basso, trasportata da basso, mi par molto degna d'esser presentata a
qualche eroico prencipe, che non ne sia indegno; però veda il nostro padre, a
chi manco meno indegnamente deve essere presentata da noi. - Rimagna in cielo,
rispose Giove, aspettando il tempo, in cui devrà essere donata in premio a quel
futuro invitto braccio, che con la mazza ed il fuoco riportarà la tanto bramata
quiete alla misera ed infelice Europa, fiaccando gli tanti capi di questo peggio
che Lerneo mostro, che con moltiforme eresia sparge il fatal veleno, che a
troppo lunghi passi serpe per ogni parte per le vene di quella. - Aggiunse Momo:
- Bastarà che done fine a quella poltronesca setta di pedanti, che senza ben
fare secondo la legge divina e naturale, si stimano e vogliono essere stimati
religiosi grati a' dei, e dicono che il far bene è bene, il far male è male;
ma non per ben che si faccia o mal che non si faccia, si viene ad essere degno e
grato a' dei; ma per sperare e credere secondo il catechismo loro. Vedete, dei,
se si trovò mai ribaldaria più aperta di questa, che da quei soli non è
vista, li quali non veggon nulla.
7 - Certo, disse Mercurio, colui che non
conosce nulla forfantaria, non conosce questa ch'è la madre di tutte. Quando
Giove istesso e tutti noi insieme proponessimo tal patto a gli uomini, deremmo
essere più abominati che la morte, come quei che, in grandissimo pregiudizio
del convitto umano, non siamo solleciti d'altro, che della vana gloria nostra. -
Il peggio è, disse Momo, che ne infamano, dicendo che questa è instituzione de
superi; e con questo che biasmano gli effetti e frutti, nominandoli ancor con
titulo di defetti e vizii. Mentre nessuno opera per essi, ed essi operano per
nessuno (perché non fanno altra opra che dir male de l'opre), tra tanto vivono
de l'opre di quelli ch'hanno operato per altri che per essi, e che per altri
hanno instituiti tempii, capelle, xeni, ospitali, collegii ed universitadi; onde
sono aperti ladroni ed occupatori di beni ereditarii d'altri; li quali, se non
son perfetti, né cossì buoni, come denno, non saranno però (come sono essi)
perversi e perniciosi al mondo; ma più tosto necessarii alla republica, periti
ne le scienze speculative, studiosi de la moralitade, solleciti circa l'aumentar
il zelo e la cura di giovar l'un l'altro, e mantener il convitto (a cui sono
ordinate tutte leggi), proponendo certi premii a' benefattori, e minacciando
certi castighi a' delinquenti. Oltre, mentre dicono ogni lor cura essere circa
cose invisibili, le quali né essi, né altri mai intesero, dicono ch'alla
consecuzion di quelle basta il solo destino, il quale è immutabile, mediante
certi affetti interiori e fantasie, de quali massimamente gli dei si pascano. -
Però, disse Mercurio, non gli deve dar fastidio, né eccitar il zelo, che
alcuni credeno le opere essere necessarie; perché tanto il destino di quelli,
quanto il destino loro che credeno il contrario, è prefisso, e non si cangia
perché il lor credere o non credere si cangie, e sia d'una ed un'altra maniera.
E per la medesima caggione essi non denno essere molesti a color che non gli
credeno, e che le stimano sceleratissimi; perché non per questo che gli vegnono
a credere e stimarli uomini da bene, cangiaranno destino. Oltre che, secondo la
lor dottrina, non è in libertà de l'elezion loro di mutarsi a questa fede. Ma
gli altri che credeno il contrario, possono giuridicamente, secondo la lor
conscienza, non solamente essere a lor molesti; ma, oltre, stimar gran
sacrificio a gli dei e beneficio al mondo di perseguitarli, ammazzarle e
spengerli da la terra, perché son peggiori che li bruchi e le locuste sterili e
quelle arpie le quali non opravano nulla di buono, ma solamente que' beni che
non posseano vorare, strapazzavano ed insporcavano con gli piedi, e faceano
impedimento a quei che s'esercitavano..
8 - Tutti quei, ch'hanno giudicio naturale,
disse Apolline, giudicano le leggi buone, perché hanno per scopo la prattica; e
quelle in comparazione son megliori, che donano meglior occasione a meglior
prattica: perché de tutte leggi altre son state donate da noi, altre finte da
gli uomini, massime per il comodo de l'umana vita; e per ciò che alcuni non
veggono il frutto de lor meriti in quella vita, però gli vien promesso e posto
avanti gli occhi de l'altra vita il bene e male, premio e castigo, secondo le
lor opre. De tutti quanti, dunque, che diversamente credeno ed insegnano, disse
Apollo, questi soli son meritevoli d'esser perseguitati dal cielo e da la terra,
ed esterminati come peste del mondo, e non son più degni di misericordia che
gli lupi, orsi e serpenti, nel spenger de quali consiste opra meritoria e degna:
anzi tanto incomparabilmente meritarà più chi le toglierà, quanto pestilenza
e ruina maggiore apportano questi che quelli. Però ben specificò Momo, che la
Corona australe a colui massime si deve, il quale è disposto dal fato a
togliere questa fetida sporcaria del mondo.
9 - Bene, disse Giove, cossì voglio, cossì
determino, che sia dispensata questa corona, come raggionevolmente Mercurio,
Momo ed Apolline hanno proposto, e voi altri consentite. Questa pestilenza, per
essere cosa violenta e contra ogni legge e natura, certo non potrà molto
durare; come possete accorgervi, ch'hanno costoro il lor destino o fato
nemicissimo, perché mai crebbe il numero di questi, se non a fine di far più
numerosa ruina. - È ben degno premio, disse Saturno, la corona per colui, che
le toglierà via; ma a questi perversi è picciola ed improporzionata pena, che
sieno solamente spenti dalla conversazion de gli uomini: però mi par oltre
giusto che, lasciato ch'aranno quel corpo, appresso, per molti lustri e per più
centinaia d'anni, da corpo in corpo trasmigrando per diverse vice e volte, se ne
vadano ad abitar in porci, che sono gli più poltroni animali del mondo, o vero
sieno ostreche marine attaccate ai scogli.
10 - La giustizia, disse Mercurio, vuole il
contrario. Mi par giusto, che per pena de l'ocio sia data la fatica. Però sarà
meglio, che vadano in asini, dove ritegnano la ignoranza e si dispogliano de
l'ocio; ed in quel supposito, in mercé di continuo lavore, abbiano poco fieno e
paglia per cibo, e molte bastonate per guidardone. - Questo parere approvâro
tutti gli Dei insieme. Allora sentenziò Giove, che la corona sia eterna di
colui che gli arà donata l'ultima scossa; ed essi per tremilia anni da asini
sempre vadano migrando in asini. Sentenziò oltre, che in loco di quella corona
particolare succedesse la ideale e comunicabile in infinito, perché da quella
possano essere suscitate infinite corone, come da una lampade accesa senza sua
diminuzione, e senza scemarsi punto di virtude ed efficacia, se ne accendeno
infinite altre. Con la qual corona intese che fusse aggionta la spada ideale, la
quale similmente ha più vero essere che qualsivoglia particolare, sussistente
infra gli limiti delle naturali operazioni. Per la qual spada e corona intende
Giove il giudicio universale, per cui nel mondo ogniuno vegna premiato e
castigato, secondo la misura de gli meriti e delitti. Approvâro molto questa
provisione tutti gli dei, per quel che conviene che alla Legge abbia la sedia
vicina il Giudicio, perché questo si deve governar per quella, e quella deve
esercitarsi per questo; questo deve esseguire, e quella dettare; in quella ha da
consistere tutta la teoria, in questo tutta la pratica.
11 Dopo fatti molti discorsi e digressioni in
proposito di questa sedia, mostrò Momo a Giove Ercole, e gli disse: - Or, che
faremo di questo tuo bastardo? - Avete udito, dei, rispose Giove, la caggione
per la quale il mio Ercole deve andarsene con gli altri altrove. Ma non voglio
che la sua andata sia simile a quella de tutti gli altri; perché la causa, modo
e raggione de la sua assumpzione è stata molto dissimile, per ciò che solo e
singularmente per le virtudi e meriti de gli gesti eroici s'ha meritato il
cielo; e benché spurio, degno però di essere legitimo figlio di Giove s'è
dimostrato. E vedete aperto, che solo la causa de l'essere adventizio, e non
naturalmente dio, fa che li sia negato il cielo; ed è il mio, non suo errore
quello che per lui io vegno, come è stato detto, notato. E credo, che vi
rimorda la conscienza; ché se uno da quella regola e determinazion generale
devesse essere eccettuato, questo solo derrebe essere Ercole. Però, se lo
togliemo da qua e lo mandamo in terra, facciamo che non sia senza suo onore e
riputazione, la quale non sia minore che se continuasse in cielo. -Assorsero
molti, dico, la più gran parte de gli dei, e dissero: - Con maggiore, se
maggior si puote. - Instituisco, dunque, Giove soggionse, che con questa
occasione a costui, come a persona operosa e forte, sia donata tal commissione e
cura, per quale si faccia dio terrestre, talmente grande, che vegna da tutti
stimato maggior che quando era autenticato per celeste semideo. - Risposero que'
medesimi: - Cossì sia. - E perché alcuni de quegli né erano assorti allora,
né parlavano adesso, si converse Giove a loro, e gli disse, che ancor essi si
facessero intendere. Però di quelli alcuni dissero: Probamus; - altri
dissero: Admittimus. -Disse Giunone: Non refragamur. - Indi si
mosse Giove a proferir il decreto in questa forma: - Per causa che in luoghi de
la terra in questi tempi si scuoprono de mostri, se non tali quali erano a'
tempi de gli antichi cultori di quella, forse peggiori; io, Giove, padre e
proveditor generale, instituisco, che, se non con simile o maggior mole di
corpo, dotato però ed inricchito di maggior vigilanza, di sollecitudine, vigor
d'ingegno ed efficacia di spirto, vada Ercole, come mio luogotenente e ministro
del mio potente braccio, in terra; e come vi si mostrò grande prima, quando fu
nato e parturito in quella, con aver superati e vinti tanti fieri mostri; e
secondo, quando rivenne a quella vittorioso da l'inferno, apparendo insperato
consolator de gli amici, ed inaspettato vendicator de gli oltragiosi tiranni;
cossì, al presente, qual nuovo e tanto necessario e bramato proveditore, vegna
la terza volta visto da la madre; e discorrendo per gli tenimenti di quella,
veda se di bel nuovo per le cittadi Arcadiche vada dissipando qualche Nemeo
leone; se il Cleoneo di nuovo appaia in Tessaglia. Guarde se quell'idra, quella
peste di Lerne, sia risuscitata a prendere le sue teste rigermoglianti. Scorga
se ne la Tracia sia di nuovo risorto quel Diomede, e chi de sangue de peregrini
pascea ne l'Ebro gli cavalli. Volte l'occhio a la Libia, se forse quell'Anteo,
che tante volte ripigliava il spirto, abbia pur una volta ripigliato il corpo.
Considere se nel regno Ibero è qualche tricorporeo Gerione. Alze il capo e veda
se per l'aria a questo tempo volano le perniciosissime Stinfalidi: dico, se
volano quelle Arpie che talvolta soleano annuvolar l'aria ed impedir l'aspetto
de gli astri luminosi. Guate se qualch'ispido cinghiale va spasseggiando per gli
Erimantici deserti. Se s'incontrasse a qualche toro, non dissimile a quello che
donava orrido spavento a tanti popoli; se bisognasse far uscir a l'aria aperto
qualche triforme Cerbero che latre, a fin che vomisca l'aconito mortifero; se
circa gli crudi altari versa qualche carnefice Busire; se qualche cerva, che di
dorate corna adorna il capo, appare per que' deserti, simile a quella che con
gli piedi di bronzo correa veloce, pari al vento; se qualche nova regina
Amazonia ha congregate le copie rubelle; se qualche infido e vario Acheloo con
inconstante, moltiforme e vario aspetto tiranneggia in qualche parte; se sono
Esperidi ch'in guardia del drago han commese le poma d'oro; se di nuovo appare
la celibe ed audace Regina del popolo Termodonzio; se per l'Italia va grassando
qualche Lancinio ladro, o discorra qualche Cacco predatore che con il fumo e
fiamme defenda gli suoi furti; se questi, o simili, o altri nuovi ed inauditi
mostri gli occorreranno, e se gli aventaranno, mentre per il spacioso dorso de
la terra verrà, lustrando; svolte, riforme, discacce, perseguite, leghe, domi,
spoglie, dissipe, rompa, spezze, franga, deprima, sommerga, brugge, casse,
uccida, annulle. Per gli quai gesti, in mercé di tante e sì gloriose fatiche,
ordino che ne gli luoghi dove effettuarà le sue eroiche imprese, gli sieno
drizzati trofei, statue, colossi, ed oltre fani e tempii, se non mi contradice
il fato.
12 - Veramente, o Giove, disse Momo, adesso mi
pari a fatto a fatto dio da bene; perché veggio che la paternale affezione non
ti trasporta a passar gli termini circa la retribuzione secondo gli meriti del
tuo Alcide; il quale se non è degno di tanto, è meritevole oltre forse di
qualche cosa di vantaggio, anco a giudicio di Giunone, la qual veggio che
ridendo pur accetta quel ch'io dico.
-13 Ma ecco il mio tanto aspettato Mercurio, o
Saulino, per cui conviene che questo nostro raggionamento si differisca ad
un'altra volta. Però piacciati discostarti e lasciarne privatamente raggionar
insieme.
14 \ SAUL.\ Bene, a rivederci domani.
15 \ SOFIA\ Ecco quello a cui ieri ho
indirizzati i voti: al fine, dopo ch'ha alquanto troppo induggiato, mi si fa
presente. Ieri a la sera doveano essere pervenuti a lui, questa notte ascoltati,
e questa mattina exequiti dal medesimo. Se subito a la mia voce non è comparso,
gran cosa lo deve aver intrattenuto; per ciò che credo non essere meno amata da
lui, che da me medesima. Ecco, il veggo uscire da quella nuvola candente, che
dal spirto d'Austro risospinta corre verso il centro del nostro orizonte, e
cedendo a' lampegianti rai del sole s'apre in cerchio, quasi coronando il mio
nobil pianeta. O sacrato padre, alta maestade, io ti ringrazio, perché veggio
il mio alato nume spuntar da quel mezzo e con l'ali distese battendo l'aria,
lieto col caduceo in mano, fender il cielo a la mia volta, più veloce che
l'ucello di Giove, più vago che l'alite di Giunone, più singulare che
l'Arabica Fenice; presto mi s'è aventato vicino, gentile mi si presenta,
unicamente affezionato mi si dimostra.
16 \ MERC.\ Eccomi teco ossequioso e favorevole
a gli tuoi voti, o mia Sofia, perché m'hai mandato a chiamare; e la tua
orazione non è pervenuta a me qual fumo aromatico, secondo il suo costume, ma
qual penetrativa e ben alata saetta di raggio risplendente.
17 \ SOFIA\ Ma tu, mio nume, che vuol dire che
sì tosto, secondo il tuo costume, non mi ti sei fatto presente?
18 \ MERC.\ Ti dirò la veritade, o Sofia. La
tua orazione mi giunse a tempo ch'io ero già ritornato da l'inferno, a
commettere nelle mani di Minoe, Eaco e Radamanto ducento quarantasei milia
cinquecento e vinti due anime, che per diverse battaglie, supplicii e
necessitadi hanno compito il corso de l'animazione di corpi presenti. Ivi era
meco la Sofia celeste, chiamata volgarmente Minerva e Pallade, la qual, al
vestito ed a l'andare, subito conobbe che quella ambasciata era la tua....
19 \ SOFIA\ Ben la possea conoscere, perché
non meno che con te, frequentemente suole contrattar con lei.
20 \ MERC.\ ... E mi disse: - Volgi gli occhi,
o Mercurio, ché per te viene questa ambasciaria de la nostra germana e figlia
terrestre. Quella che vive del mio spirito e più di lungi, vicino alle tenebre,
procede dal lume del mio padre, voglio che ti sia raccomandata. - È cosa
soverchia, io li risposi, o nata del cervello di Giove, il raccomandarmi la
tanto amata nostra comune sorella e figlia. - Mi approssimai, dunque, alla tua
messaggera: l'abbraccio, la bacio, la metto in compendio, apro gli bottoni del
gippone, e me l'insacco tra la camicia e la pelle, sotto la quale batte e
ribatte il polso del core. Giove (il quale era presente, poco discosto,
raggionando in secreto con Eolo ed Oceano, li quali erano inbottati, per
ritornarsene presto alli negocii suoi qua giù) vedde quel ch'io feci, e
rompendo il raggionamento in cui si ritrovava, fu curioso di dimandarmi subito
che memoriale quello fusse che m'avevo messo in petto; ed avendogli io risposto
com'era cosa tua: -Oh la mia povera Sofia! disse, come la passa? come la fa? Ahi
poverina, da quel cartoccio, che non è troppo riccamente piegato, io
comprendevo che non possev'essere altro che quel che dici. È pur gran tempo che
non abbiamo avuto nova alcuna di lei. Or che cosa la dimanda? che gli manca? che
ti propone? - Non altro, dissi, eccetto ch'io gli sia assistente ad ascoltarla
per un'ora. - Sta bene, - disse, e tornò a compire il raggionamento con que'
doi dei; e cossì poi in fretta mi chiamò a sé, dicendo: - Su, su, presto,
doniamo ordine a nostri affari, prima che tu vadi a veder che vuole quella
meschina, ed io a ritrovar questa mia tanto fastidiosa mogliera, che certo mi
pesa più che tutta la carca de l'universo. - Subito volse (perché cossì è
novamente decretato nel cielo) che di mia mano registrasse tutto quel che deve
essere provisto oggi nel mondo.
21 \ SOFIA\ Fatemi, se vi piace, alquanto udire
di negocii, poi che m'hai svegliata questa cura nel petto.
22 \ MERC.\ Ti dirò. Ha ordinato, che oggi a
mezzo giorno doi meloni, tra gli altri, nel melonaio di Franzino sieno
perfettamente maturi; ma che non sieno colti, se non tre giorni appresso, quando
non saran giudicati buoni a mangiare. Vuole ch'al medesimo tempo dalla iuiuma,
che sta alle radici del monte di Cicala, in casa di Gioan Bruno, trenta iuiomi
sieno perfetti colti, e diece sette caggiano scalmati in terra, quindeci sieno
rosi da' vermi. Che Vasta, moglie di Albenzio, mentre si vuole increspar gli
capelli de le tempie, vegna, per aver troppo scaldato il ferro, a bruggiarne
cinquanta sette; ma che non si scotte la testa, e per questa volta non biastemi
quando sentirà il puzzo; ma con pazienza la passe. Che dal sterco del suo bove
nascano ducento cinquanta doi scarafoni, de quali quattordeci sieno calpestrati
ed uccisi per il piè di Albenzio, vinti sei muoiano di rinversato, venti doi
vivano in caverna, ottanta vadano in peregrinaggio per il cortile, quarantadoi
si retireno a vivere sotto quel ceppo vicino a la porta, sedeci vadano
isvoltando le pallotte per dove meglio li vien comodo, il resto corra a la
fortuna. A Laurenza, quando si pettina, caschino diece sette capelli, tredeci se
gli rompano, e di quelli diece rinascano in spacio di tre giorni, e gli sette
non rivegnano più. La cagna d'Antonio Savolino concepa cinque cagnolini, de
quali tre a suo tempo vivano, e doi sieno gittati via; e di que' tre il primo
sia simile a la madre, il secondo sia vario, il terzo sia parte simile al padre
e parte a quello di Polidoro. In quel tempo il cuculo s'oda cantare da la
Starza, e non faccia udire più né meno che dodici cuculate; e poi si parta, e
vada a le roine del castello Cicala per undeci minuti d'ora, e da là se ne vole
a Scarvaita; e di quello che deve essere appresso, provederemo poi. Che la gonna
che mastro Danese taglia su la pianca, vegna stroppiata. Che da le tavole del
letto di Costantino si partano dodeci cimici, e sene vadano al capezzale: sette
degli più grandi, quattro de più piccioli, uno de mediocri; e di quello che di
essi ha da essere questa sera al lume di candela, provederemo. Che a quindeci
minuti de la medesima ora per il moto de la lingua, la quale si varrà la quarta
volta rimenando per il palato, a la vecchia di Fiurulo casche la terza mola che
tiene nella mascella destra di sotto; la qual caduta sia senza sangue e senza
dolore; perché la detta mola è gionta al termine della sua trepidazione, che
ha perdurato a punto diece sette annue revoluzioni lunari. Che Ambruoggio nella
centesima e duodecima spinta abbia spaccio ed ispedito il negocio con la
mogliera, e che non la ingravide per questa volta, ma ne l'altra con quel seme
in cui si convertisce quel porro cotto, che mangia al presente con la sapa e
pane di miglio. Al figlio di Martinello comincieno a spuntar i peli de la
pubertade nel pettinale, ed insieme insieme comincie a gallugarli la voce. Che a
Paulino, mentre vorrà alzar un'ago rotta da terra, per la forza che egli farà,
se gli rompa la stringa rossa de le braghe; per la qual cosa, se bestemmiarà,
voglio che sia punito appresso con questo, che questa sera la sua minestra sia
troppo salita e sappia di fumo; caggia e se gli rompa il fiasco pieno di vino;
per la qual causa se bestimmiarà, provederemo poi. Che di sette talpe, le quali
da quattro giorni fa son partite dal fondo de la terra, prendendo diversi camini
verso l'aria, due vegnano a la superficie de la terra nell'ora medesima, l'una
al punto di mezzo giorno, l'altra a quindeci minuti e diece nove secondi
appresso, discoste l'una da l'altra tre passi, un piede e mezzo dito ne l'orto
di Anton Faivano. Del tempo e luogo de l'altre si provederà al più tardi.
23 \ SOFIA\ Hai molto da fare, o Mercurio, se
mi vuoi raccontare tutti questi atti della provisione, che fa il padre Giove; e
nel volermi tutti questi decreti particolari uno per uno far ascoltare, mi pari
che sei simil a colui, che volesse prendere il conto de granegli de la terra. Tu
sei stato tanto a apportare quattro minuzzarie de infinite altre che nel
medesimo tempo sono accadute in una picciola contrada, dove son quattro o cinque
stanze non troppo magnifiche; or che sarrebe, se dovessi donar conto a pieno de
cose ordinate in quella ora per questa villa, che sta alle radici del monte
Cicada? Certo, non ti bastarebbe un anno da esplicarle una per una, come hai
cominciato a fare. Che credi, se oltre volessi apportar tutte le cose accadute
circa la città di Nola, circa il regno di Napoli, circa l'Italia, circa
l'Europa, circa tutto il globo terrestre, circa ogni altro globo in infinito,
come infiniti son gli mondi sottoposti alla providenza di Giove? In vero, per
apportar solo quello che è accaduto ed ordinato d'esser in uno instante
nell'ambito d'un solo di questi orbi o mondi, non ti fia mestiero dimandar cento
lingue e cento bocche di ferro, come fanno gli poeti, ma mille millia migliaia
de millioni in termine d'un anno, ad non averne executata la millesima parte. E
per dirla, o Mercurio, non so che voglia dir questo tuo riporto, per cui alcuni
de' miei coltori, chiamati filosofi, stimano che questo povero gran padre Giove
sia molto sollecito, occupato ed impacciato; e credeno che lui sia di tal
fortuna, che non è minimo mortale che debba aver invidia al stato suo. Lascio
che in quel tempo che spendeva a proponere e destinar questi effetti,
necessariamente scorsero infinite volte infinite occasioni di provedere ed aver
provisto ad altri; e tu, mentre me le vuoi raccontare, se volesse far l'officio
tuo, devi averne fatti e farne infinite volte altri infiniti.
24 \ MERC.\ Sai, Sofia, se sei Sofia, che Giove
fa tutto senza occupazione, sollecitudine ed impacciamento, perché a specie
innumerabili ed infiniti individui provede donando ordine, ed avendo donato
ordine, non con certo ordine successivo, ma subito subito ed insieme insieme; e
non fa le cose a modo de gli particolari efficienti, ad una ad una, con molte
azioni, e con quelle infinite viene ad atti infiniti; ma tutto il passato,
presente e futuro fa con un atto semplice e singulare.
25 \ SOFIA\ Io posso saper questo, o Mercurio,
che non insieme insieme raccontate e mettete in execuzione queste cose, ed esse
non sono in un suggetto semplice e singolare: e però l'efficiente deve essere
proporzionato, o almeno con l'operazione proporzionarsi a quelle.
26 \ MERC.\ È vero quel che dici, e deve
essere cossì, e non può essere altrimente nello efficiente particolare,
prossimo e naturale; perché ivi, secondo la raggione e misura dell'effettiva
virtude particulare, séguita la misura e raggione de l'atto particolare circa
il particular suggetto; ma nell'efficiente universale non è cossì, perché lui
è proporzionato, se si può dir cossì, a tutto l'effetto infinito che da lui
depende, secondo la raggione de tutti luoghi, tempi, modi e suggetti, e non
definitamente ad certi luoghi, suggetti, tempi e modi.
27 \ SOFIA\ So, o Mercurio, che la cognizione
universale è distinta dalla particolare, come il finito da l'infinito.
28 \ MERC.\ Di' meglio: come l'unitade da
l'infinito numero. E devi saper ancora, o Sofia, che la unità è nel numero
infinito, ed il numero infinito nell'unità; oltre che l'unità è uno infinito
implicito, e l'infinito è la unità explicita: appresso che dove non è unità,
non è numero, né finito, né infinito; e dovunque è numero o finito o
infinito, ivi necessariamente è l'unità. Questa dunque è la sustanza di
quello; dunque, chi non accidentalmente, come alcuni intelletti particolari, ma
essenzialmente, come l'intelligenza universale, conosce l'unità, conosce l'uno
ed il numero, conosce il finito ed infinito, il fine e termine da compreensione
ed eccesso di tutto; e questo può far tutto non solo in universale, ma oltre in
particolare; cossì come non è particolare che non sia compreso
nell'universale, non è numero, in cui più veramente non sia l'unità, che il
numero istesso. Cossì, dunque, senza difficoltà alcuna e senza impaccio Giove
provede a tutte cose in tutti luoghi e tempi, come necessariamente lo essere ed
unità si trova in tutti numeri, in tutti luoghi, in tutti tempi ed atomi di
tempi, luoghi e numeri; e l'unico principio de l'essere è in infiniti
individui, che furono, sono e saranno. Ma non è questa disputazione il fine per
cui sono venuto, e per cui credo d'esser stato chiamato da te.
29 \ SOFIA\ È vero che so bene che queste son
cose degne d'esser decise da miei filosofi, e pienamente intese non da me, che
non le posso capire, eccetto che difficilmente in comparazioni e similitudini,
ma dalla Sofia celeste e da te; ma da quel tuo raccontare son stata commossa a
cotal questione, prima che venire a discorrere circa gli mei particolari
interessi e dissegni. E certo mi parevi che senza ogni proposito tu,
giudiciosissimo nume, fussi entrato in quello discorrer di cose cossì minime e
basse.
30 \ MERC.\ Non l'ho fatto con vanità, ma con
grande providenza, Sofia; perché ho giudicata necessaria questa animadversione
a te, per quel che conosco, che per le molte affliczioni sei di tal maniera
turbata, che facilmente l'affetto ti vegna trasportato a voler non troppo
piamente opinare circa il governo de gli dei; il quale è giusto e sacrosanto al
fin finale, benché le cose appaiono, in quella maniera che tu vedi,
confusissime. Ho voluto dunque, prima che trattasse altro, provocarti a cotal
contemplazione, per renderti sicura dal dubio che potessi aver, e forse molte
volte dimostri; perché, essendo tu terrena e discorsiva, non puoi apertamente
intendere l'importanza de la providenza di Giove, e del studio di noi altri suoi
collaterali.
31 \ SOFIA\ Ma pure, o Mercurio, che vuol dire,
che più tosto al presente, che altre volte, ti ha commosso questo zelo?
32 \ MERC.\ Ti dirò (quello ch'ho differito di
dirti sin al presente): perché il tuo voto, la tua orazione, la tua
ambasciaria, benché sia gionta in cielo e pervenuta a noi veloce e presta, era
però a mezza estade agghiacciata, era irresoluta, era tremante, quasi più
gittata come alla fortuna che inviata e commessa come a la providenza: quasi che
era dubia, se la possea aver effetto di toccarne l'orecchie, come di quelli che
sono attenti a cose che son stimate più principali. Ma te inganni, Sofia, se
pensi, che non ne sieno a cura cossì le cose minime, come le principali,
talmente sicome le cose grandissime e principalissime non costano senza le
minime ed abiettissime. Tutto dunque, quantunque minimo, è sotto infinitamente
grande providenza; ogni quantosivoglia vilissima minuzzaria in ordine del tutto
ed universo è importantissima; perché le cose grandi son composte de le
picciole, e le picciole de le picciolissime, e queste de gl'individui e minimi.
Cossì intendo de le grande sustanze, come de le grande efficacie e grandi
effetti.
33 \ SOFIA\ È vero, perché non è sì grande,
sì magnifico e sì bello architetto che non coste di cose che picciole,
vilissime ed informi appaiono e son giudicate.
34 \ MERC.\ L'atto della cognizion divina è la
sustanza de l'essere di tutte cose; e però, come tutte cose o finito o infinito
hanno l'essere, tutte ancora sono conosciute ed ordinate e proviste. La
cognizion divina non è come la nostra, la quale séguite dopo le cose; ma è
avanti le cose e si trova in tutte le cose, di maniera che, se non la vi si
trovasse, non sarrebono cause prossime e secondarie.
35 \ SOFIA\ E per questo vuoi, o Mercurio, che
io non mi sgomente per cosa minima o grande che mi accade, non solo come
principale e diretta, ma ancora come indiretta ed accessoria; e che Giove è in
tutto, e colma il tutto, ed ascolta tutto.
36 \ MERC.\ Cossì è; però per l'avenire
sovengati di scaldar più la tua ambasciaria, e non mandarla cossì negletta,
mal vestita e fredda in presenza di Giove; e lui e la tua Pallade m'hanno
imposto, che prima ch'io ti parlasse d'altro, con qualche desterità ti facesse
accorta di questo.
37 \ SOFIA\ Io vi ringrazio tutti.
38 \ MERC.\ Or esplica la causa per la quale
m'hai fatto venire a te..
39 \ SOFIA\ Per la mutazione e cangiamento di
costumi, ch'io comprendo in Giove, per quello che per altri raggionamenti ho
appreso da te; io sono entrata in sicurtà di dimandargli e fargli instanza di
ciò che altre volte non ho avuto ardire, quando temeva che qualche Venere o
Cupido o Ganimede rigettasse e risospingesse la mia ambasciaria, quando si
presentava a la porta de la camera di Giove. Adesso ch'è riformato il tutto, e
che sono ordinati altri portinaii, condottieri ed assistenti, e che lui è ben
disposto verso la giustizia, voglio che per tuo mezzo li vegna presentata la mia
richiesta, la qual versa circa gli gran torti che mi vegnono fatti da diverse
sorte di uomini in terra, e pregarlo che mi sia favorevole e propicio, secondo
che la sua conscienza li dettarà.
40 \ MERC.\ Questa tua richiesta, per esser
lunga e di non poca importanza, ed anco per esser novamente decretato nel cielo,
che tutte le espedizioni, tanto civili quanto criminali, vegnano registrate
nella camera, non senza tutte le occasioni, mezzi e circonstanze loro, però è
necessario, che tu me la porghi in scritto, e cossì la presenti a Giove ed al
Senato celeste.
41 \ SOFIA\ Onde questo nuovo ordine?
42 \ MERC.\ Acciò che ognuno di gli dei in
questo modo vegna costretto a far la giustizia; perché per la registrazione che
eterniza la memoria de gli atti, vengano a temer l'eterna infamia, e d'incorrere
biasimo perpetuo con la condannazione che si deve aspettar dall'absoluta
giustizia che regna sopra li governatori, ed è presidente sopra tutti dei.
43 \ SOFIA\ Cossì, dunque, farò. Ma vi
bisogna del tempo a pensare e scrivere; però ti priego che rivegni domani a me,
o vero il prossimo seguente giorno.
44 \ MERC.\ Non mancarò. Tu pensa a quel che
fai.
2 \ SOFIA\ Facilmente. Sopra tutte le cose, o
Saulino, è situata la verità; perché questa è la unità che soprasiede al
tutto, è la bontà che è preeminente ad ogni cosa; perché uno è lo ente,
buono e vero; medesimo è vero, ente e buono. La verità è quella entità che
non è inferiore a cosa alcuna; perché, se vuoi fengere qualche cosa avanti la
verità, bisogna che stimi quella essere altro che verità; e se la fingi altro
che verità, necessariamente la intenderai non aver verità in sé ed essere
senza verità, non essere vera; onde conseguentemente è falsa, è cosa de
niente, è nulla, è non ente. Lascio che niente può essere prima che la
verità, se non è vero che quello sia primo e sopra la verità; e cotal vero
essere non può essere se non per la verità. Cossì non può essere altro
insieme con la verità, ed essere quel medesimo senza verità; percioché, se
per la verità non è vero, non è ente, è falso, è nulla. Parimente non può
essere cosa appresso la veritade; perché, se è dopo lei, è senza lei; se è
senza lei, non è vero; perché non ha la verità in sé; sarà dunque falso,
sarà dunque niente. Dunque la verità è avanti tutte le cose, è con tutte le
cose, è dopo tutte le cose, è sopra tutto, con tutto, dopo tutto; ha raggione
di principio, mezzo e fine. Essa è avanti le cose, per modo di causa e
principio, mentre per essa le cose hanno dependenza; è nelle cose ed è
sustanza di quelle istessa, mentre per essa hanno la sussistenza; è dopo tutte
le cose, mentre per lei senza falsità si comprendeno. È ideale, naturale e
nozionale; è metafisica, fisica e logica. Sopra tutte le cose, dunque, è la
verità; e ciò che è sopra tutte le cose, benché sia conceputo secondo altra
raggione, ed altrimente nominato, quello pure in sustanza bisogna che sia
l'istessa verità. Per questa causa, dunque, raggionevolmente Giove ha voluto
che nella più eminente parte del cielo sia vista la veritade. Ma certo questa
che sensibilmente vedi e che puoi con l'altezza del tuo intelletto capire, non
è la somma e prima, ma certa figura, certa imagine e certo splendor di quella,
la quale è superiore a questo Giove di cui parliamo sovente e che è soggetto
delle nostre metafore.
3 \ SAUL.\ Degnamente, o Sofia; perché la
verità è la cosa più sincera, più divina di tutte; anzi la divinità e la
sincerità, bontà e bellezza de le cose è la verità; la quale né per
violenza si toglie, né per antiquità si corrompe, né per occultazione si
sminuisce, né per communicazione si disperde: perché senso non la confonde,
tempo non l'arruga, luogo non l'asconde, notte non l'interrompe, tenebra non
l'avela; anzi, con essere più e più impugnata, più e più risuscita e cresce.
Senza difensore e protettore si defende; e però ama la compagnia di pochi e
sapienti, odia la moltitudine, non si dimostra a quelli che per se stessa non la
cercano, e non vuol essere dechiarata a color che umilmente non se gli esponeno,
né a tutti quei che con frode la inquireno; e però dimora altissima, dove
tutti remirano e pochi veggono. Ma perché, o Sofia, la prudenza gli succede?
forse, perché coloro che vogliono contemplar la verità e che la vogliono
predicare, si deveno con prudenza governare?
4 \ SOFIA\ Non è questa la causa. Quella dea
che è gionta e prossima alla verità, ha doi nomi: providenza e prudenza. E si
chiama providenza, in quanto influisce e si trova nelli principii superiori; e
si chiama prudenza, in quanto è effettuata in noi: come sole suole essere
nomato e quello che scalda e diffonde il lume, ed oltre quel lume e splendor
diffuso che si trova nel specchio ed oltre in altri suggetti. La providenza,
dunque, se dice nelle cose superiori, ed è compagna della verità, e non è
senza quella, ed è la medesima libertà e la medesima necessità; di maniera
che la verità, la providenza, la libertà e necessità, la unità, la verità,
la essenzia, la entità, tutte sono uno absolutissimo, come altre volte ti farò
meglio intendere. Ma, per comodità della presente contemplazione, sappi che
questa influisce in noi la prudenza, la qual è posta e consistente in certo
discorso temporale; ed è una razione principale che versa circa l'universale e
particolare; ha per damigella la dialettica, e per guida la sapienza acquisita,
nomata volgarmente metafisica, la quale considera gli universali de tutte le
cose che cascano in cognizione umana: e, queste due, tutte le sue considerazioni
referiscono all'uso di quella; ha due insidiatrici nemiche che sono viziose:
dalla destra si trova la callidità, versuzia e malizia; dalla sinistra, la
stupidità, inerzia ed imprudenzia. E versa circa la virtù consultativa, come
la fortezza circa l'impeto de l'iracundia, la temperanza circa il consentimento
della concupiscibile, la giustizia circa tutte le operazioni, tanto esterne,
quanto interiori.
5 \ SAUL.\ Dalla providenza, dunque, vuoi che
influisca in noi la prudenza, e che nel mondo archetipo quella risponda a questa
che è nel mondo fisico: questa che porge a gli mortali il scudo, per cui contra
le cose adverse con la raggione si fortificano, per cui siamo insegnati di
prendere più pronta e perfetta cautela dove maggiori dispendii si minacciano e
temeno; per cui gli agenti inferiori s'accomodano alle cose, ai tempi ed
all'occasioni; e non si mutano, ma s'adattano gli animi e le voluntadi. Per cui
a gli bene affetti niente accade come subitanio ed improviso, di nulla dubitano,
ma tutto aspettano; di nulla suspicano, ma da tutto si guardano; ricordandosi il
passato, ordinando il presente e prevedendo il futuro. Or dimmi, perché Sofia
succede ed è prossima a la prudenza e veritade?
6 \ SOFIA\ La Sofia, come la verità e la
providenza, è di due specie. L'una è quella superiore, sopraceleste ed
oltremondana, se cossì dir si puote; e questa è l'istessa providenza, medesima
è luce ed occhio: occhio, che è la luce istessa; luce, che è l'occhio
istesso. L'altra è la consecutiva, mondana ed inferiore; e non è verità
istessa, ma è verace e partecipe della verità; non è il sole, ma la luna, la
terra ed astro, che per altro luce. Cossì non è Sofia per essenza, ma per
participazione; ed è un occhio che riceve la luce e viene illuminato da lume
esterno e peregrino; e non è occhio da sé, ma da altro; e non ha essere per
sé, ma per altro. Perché non è l'uno, non è l'ente, il vero; ma de l'uno, de
l'ente, del vero; a l'uno, a l'ente, al vero; per l'uno, per l'ente, per il
vero; nell'uno, nell'ente, nel vero; da l'uno, da l'ente, dal vero. La prima è
invisibile ed infigurabile ed incomprensibile sopra tutto, in tutto ed infra
tutto; la seconda è figurata in cielo, illustrata nell'ingegni, communicata per
le paroli, digerita per l'arti, repolita per le discussioni, delineata per le
scritture; per la quale chi dice sapere quel che non sa, è temerario sofista;
chi nega sapere quel che sa, è ingrato a l'intelletto agente ed ingiurioso a la
verità, ed oltraggioso a me. E di simil sorte vegnono ad essere tutti quelli
che non mi cercano per me stessa, o per la suprema virtude ed amor della
divinitade, ch'è sopra ogni Giove ed ogni cielo, ma o per vendermi per denari o
per onori, o per altre specie di guadagno; o non tanto per sapere, quanto per
essere saputi, o per detraere e posser impugnare, e farsi contra la felicità
d'alcuni molesti censori e rigidi osservatori; e di questi li primi son miseri,
li secondi son vani, li terzi son maligni e di vil animo. Ma color che mi
cercano per edificar se stessi, sono prudenti; gli altri che m'osservano per
edificar altrui, sono umani; quei che mi cercano absolutamente, sono curiosi;
gli altri che m'inquireno per amor della suprema e prima verità, sono sapienti,
e per conseguenza felici.
7 \ SAUL.\ Onde aviene, o Sofia, che non tutti,
che medesimamente ti possedeno, non vegnono tutti medesimamente affetti; anzi
talor, chi meglio ti possede, men bene vien edificato?
8 \ SOFIA\ Onde accade, o Saulino, che il sole
non scalda tutti quelli alli quali luce, e tal volta meno riscalda tali a' quali
maggiormente risplende?
9 \ SAUL.\ Io t'intendo, Sofia; e comprendo che
tu sei quella che in varii modi contempli, comprendi ed esplichi questa
veritade, e gli effetti di quella superna influenza de l'esser tuo, alla quale
per varii gradi e scale diverse tutti aspirano, tentano, studiano e si forzano
salendo pervenire, e si obietta e presenta medesimo fine e scopo a' diversi
studii, e viene ad attuare diversi suggetti de virtudi intellettuali, secondo
diverse misure, mentre a quell'una e semplicissima veritade l'addrizza; la quale
come non è chi alcunamente la possa toccare, cossì non si trova qua basso chi
la possa perfettamente comprendere: perché non è compresa, o veramente non
viene appareggiata se non da quello in cui è per essenza; e questo non è altro
che lei medesima. E perciò da fuori non si vede se non in ombra, similitudine,
specchio ed in superficie e maniera di faccia, alla quale non è in questo mondo
chi più s'avicine per atto di providenza ed effetto di prudenza, eccetto che
tu, Sofia, mentre vi conduci sette diverse, de le quali altre admirando, altre
parabolando, altre inquirendo, altre opinando, altre iudicando e determinando;
altre per sufficienza di natural magia, altre per superstiziosa divinazione,
altre per modo di negazione, altre per modo di affirmazione, altre per via di
composizione, altre per via di divisione, altre per via de definizione, altre
per via di demostrazione; altre per principii acquisiti, altre per principii
divini aspirano: mentre quella gli crida, in nullo luogo presente, da nullo
luogo absente, proponendogli avanti gli occhi del sentimento per scrittura tutte
le cose ed effetti naturali, e gl'intona nell'orecchio de l'interna mente per le
concepute specie di cose visibili ed invisibili.
10 \ SOFIA\ Alla Sofia succede la legge, sua
figlia; e per essa quella vuole oprare, e per questa lei vuole essere adoperata;
per questa gli prencipi regnano, e li regni e republiche si mantegnono. Questa,
adattandosi alla complessione e costumi di popoli e genti, reprime l'audacia col
timore, e fa che la bontade sia sicura tra gli scelerati; ed è caggione, che ne
gli rei sempre sia il rimorso della conscienza, con il timore della giustizia ed
aspettazione di quel supplicio che discaccia l'orgoglioso ardire, ed introduce
l'umile consentimento con gli suoi otto ministri, che sono taglione, carcere,
percosse, esilio, ignominia, servitù, povertade e morte. Giove l'ha riposta in
cielo ed essaltata con questa condizione, che faccia che gli potenti per la lor
preeminenza e forza non sieno sicuri; ma referendo il tutto a maggior providenza
e legge superiore (per cui, come divina e naturale, si regole la civile), faccia
intendere, che per coloro ch'esceno dalle tele d'aragne, sono ordinate le reti,
gli lacci, le catene ed i ceppi, atteso che per ordine della legge eterna è
sancito, che gli più potenti sieno più potentemente compresi e vinti, se non
sotto un manto e dentro una stanza, sotto altro manto ed altra stanza, che sarà
peggiore. Appresso gli ha ordinato ed imposto, che massimamente verse e vegna
rigorosa circa le cose alle quali da principio e prima e principal causa è
stata ordinata: cioè circa quel tanto ch'appartiene alla communione de gli
uomini, alla civile conversazione; a fine che gli potenti sieno sustenuti da
gl'impotenti, gli deboli non sieno oppressi da gli più forti, sieno deposti gli
tiranni, ordinati e confirmati gli giusti governatori e regi, sieno faurite le
republiche, la violenza non inculche la raggione, l'ignoranza non dispreggie la
dottrina, li poveri sieno agiutati da' ricchi, le virtudi e studii utili e
necessarii al commune sieno promossi, avanzati e mantenuti; sieno esaltati e
remunerati coloro che profittaranno in quelli; e gli desidiosi, avari e
proprietarii sieno spreggiati e tenuti a vile. Si mantegna il timore e culto
verso le potestadi invisibili; onore, riverenza e timore verso gli prossimi
viventi governatori; nessuno sia preposto in potestà, che medesimo non sia
superiore de meriti, per virtude ed ingegno in cui prevaglia, o per sé solo, il
che è raro e quasi impossibile, o con comunicazione e conseglio d'altri ancora,
il che è debito, ordinario e necessario. Gli ha donata Giove la potenza di
legare, la quale massime consista in questo, che lei non si faccia tale che
incorra dispreggio e indignità; a cui si potrà incontrare, menando gli passi
per doi camini, de quali l'uno è della iniquità, comandando e proponendo cose
ingiuste, l'altro è della difficultà, proponendo e comandando cose
impossibili, le quali pure sono ingiuste: perciò che due sono le mani per le
quali è potente a legare ogni legge, l'una è della giustizia, l'altra è della
possibilità; e di queste l'una è moderata da l'altra, atteso che, quantunque
molte cose sono possibili che non son giuste, niente però è giusto che non sia
possibile.
11 \ SAUL.\ Bene dici, o Sofia, che nessuna
legge che non è ordinata alla prattica del convitto umano, deve essere
accettata. Ben ha disposto ed ordinatogli Giove; perché, o che vegna dal cielo,
o che esca da la terra, non deve esser approvata, né accettata quella
instituzione o legge che non apporta la utilità e commodità, che ne amena ad
ottimo fine: del quale maggiore non possiamo comprendere che quello, che
talmente indirizza gli animi e riforma gl'ingegni, che da quelli si producano
frutti utili e necessari alla conversazione umana; ché certo bisogna che sia
cosa divina, arte de le arti e disciplina de le discipline quella per cui hanno
da esser retti e reprimuti gli uomini, che tra tutti gli animali son di
complessioni più distinti, di costumi più varii, d'inclinazioni più divisi, e
di voluntadi più diversi, di appulsi più inconstanti. Ma, oimè, o Sofia, che
siamo dovenuti a tale (chi mai avri' possuto credere, che questo fusse
possibile?), che quella deve essere stimata massime religione la quale per
minimo e vile, e per errore abbia l'azione ed atto di buone operazioni; dicendo
alcuni, che di quelle non si curano gli dei, e per quelle, quantunque sieno
grandi, non sono giusti gli uomini.
12 \ SOFIA\ Certo, o Saulino, io credo sognare;
penso che sia un fantasma, una apparizione di turbata fantasia, e non cosa vera
quella che dici; ed è pur certo che si trovano tali, che proponano e facciano
creder questo a le misere genti. Ma non dubitare, perché il mondo facilmente si
accorgerà che questo non si può digerire, cossì come facilmente si può
avedere di non posser sussistere senza legge e religione.
13 Or abbiamo alquanto veduto, come bene è
stata ordinata e situata la legge: devi adesso udire, con qual cognizione a
quella è vicino aggionto il giudizio. Giove al giudicio ha messo in mano la
spada e la corona: questa, con cui premie quelli che oprano bene, astenendosi
dal male; quella, con cui castighe color che son pronti a gli delitti, e son
disutili ed infruttifere piante. Ha ingionto al giudicio la defensione e cura
della vera legge, e la destruzione dell'iniqua e falsa, dettata da genii
perversi ed inimici del tranquillo e felice stato umano; ha comandato al
giudicio che, gionto alla legge, non estingua, ma, quanto si può, accenda
l'appetito de la gloria ne gli petti umani, perché questo è quel solo ed
efficacissimo sprone, che suole incitar gli uomini e riscaldarli a quelli gesti
eroici che aumentano, mantegnono e fortificano le republiche.
14 \ SAUL.\ Li nostri de la finta religione
tutte queste glorie le chiamano vane; ma dicono che bisogna gloriarsi solamente
in non so che tragedia caballistica.
15 \ SOFIA\ Oltre, che non attenda a quel che
s'imagine o pense ciascuno, pur che le paroli e gesti non corrompano il stato
tranquillo; e massime verse in correggere e mantenere tutto quel che consiste ne
l'operazioni, non giudicar l'arbore da belle frondi, ma da buoni frutti; e
quelli che non le producono, sieno tolti e cedano il loco ad altri che porgano.
Che non creda, che in modo alcuno li dei si senteno interessati in quelle cose
nelle quali nessuno uomo si sente interessato; perché di quelle cose solamente
gli dei si curano de le quali si possono curar gli uomini, e non per cosa che
vegna fatta o detta o pensata per essi, si commuoveno o se adirano, se non in
quanto per quello venesse a perdersi quel rispetto per cui si mantegnono le
republiche; atteso che gli dei non sarebono dei, se si prendessero piacere o
dispiacere, tristizia o allegrezza per quello che fanno o pensano gli uomini; ma
quelli sarebono più bisognosi che questi, o al meno cossì quelli riceverebono
utilitade e profitto da questi, come questi da quelli. Essendono, dunque, li dei
rimossi da ogni passione, vegnono ad aver ira e piacere attivo solamente, e non
passivo; e però non minacciano castigo e prometteno premio, per male o bene che
risulta in essi, ma per quello che viene ad essere commesso nelli popoli e
civile conversazioni, alle quali hanno soccorso con le loro divine, non
bastandogli le umane leggi e statuti. Per tanto è cosa indegna, stolta, profana
e biasimevole pensare che gli dei ricercano la riverenza, il timore, l'amore, il
culto e rispetto da gli uomini per altro buon fine ed utilitade che de gli
uomini medesimi: atteso che, essendo essi gloriosissimi in sé, e non
possendosegli aggionger gloria da fuori, han fatto le leggi non tanto per
ricevere gloria, quanto per communicar la gloria a gli uomini: e però tanto le
leggi e giudicii son lontane dalla bontà e verità di legge e giudicio, quanto
se discostano dall'ordinare ed approvare massimamente quello che consiste
nell'azioni morali de gli uomini a riguardo de gli altri uomini.
16 \ SAUL.\ Efficacemente, o Sofia, per questa
ordinazion di Giove si dimostra, che gli arbori, che sono ne gli orti delle
leggi, sono ordinati da gli dei per gli frutti, e specialmente tali, de quali si
pascano, si nutriscano e conservino gli uomini; e che gli superi non si
delettano d'odore d'altri che di questi.
17 \ SOFIA\ Ascolta. Da questo vuole, che il
giudizio inferisca che li dei massime vogliano essere amati e temuti, per fine
di faurire al consorzio umano, ed avertire massimamente que' vizii che apportano
noia a quello; e però li peccati interiori solamente denno esser giudicati
peccati, per quel che metteno o metter possono in effetto esteriore; e le
giustizie interiori mai sono giustizie senza la prattica esterna, come le piante
in vano sono piante senza frutti, o in presenza o in aspettazione. E vuole che
de gli errori, in comparazione, massimi sieno quelli che sono in pregiudicio
della republica; minori quelli che sono in pregiudicio d'un altro particolare
interessato; minimo sia quello ch'accade tra doi d'accordo; nullo è quello, che
non procede a mal essempio o male effetto, e che da gl'impeti accidentali
accadeno nella complessione dell'individuo. E questi son que' medesimi errori,
per gli quali gli eminenti dei si senteno massime-, minore-, minima-, e
nullamente offesi; e per di questi l'opre contrarie si stimano massime-,
minore-, minima-, ed alcunamente serviti. Ha comandato ancora al giudicio, che
sia accorto che per l'avenire approve la penitenza, ma che non la metta al pari
dell'innocenza; approvi il credere e stimare, ma giamai al pari del fare ed
operare. Cossì intende del confessare e dire al rispetto del corregere ed
astinere; tanto comende li pensieri, per quanto riluceno nelli segni espressi e
ne gli effetti possibili. Non faccia che colui che doma vanamente il corpo,
sieda vicino a colui ch'affrena l'ingegno; non pona in comparazione questo
solitario disutile con quello di profittevole conversazione. Non distingua gli
costumi e religioni tanto per la distinzione di toghe e differenze de vesti,
quanto per buoni e megliori abiti di virtudi e discipline. Non tanto arrida a
quello che ha frenato il fervor della libidine, che forse è impotente e freddo,
quanto a quell'altro ch'ha mitigato l'empito de l'ira, che certo non è timido,
ma paziente. Non applauda tanto a quello che forse disutilmente s'è ubligato a
non mostrarsi libidinoso, ch'a quell'altro che si determina di non essere oltre
maledico e malfattore. Non dica maggior errore il superbo appetito di gloria,
onde resulta sovente bene alla republica, che la sordida cupidiggia di danari.
Non faccia tanto trionfo d'uno, perché abbia sanato un vile e disutil zoppo,
che poco o nulla vale più sano che infermo, quanto d'un altro ch'ha liberata la
patria e riformato un animo perturbato. Non stime tanto, o più, gesto eroico
l'aver in qualche modo e qualche maniera possuto estinguer il fuoco d'una
fornace ardente senz'acqua, che l'aver estinte le sedizioni d'un popolo acceso
senza sangue. Non permetta, che si addrizzeno statue a' poltroni, nemici del
stato de le republiche, e che in pregiudicio di costumi e vita umana ne porgono
paroli e sogni, ma a color che fanno tempii a' dei, aumentano il culto ed il
zelo di tale legge e religione per quale vegna accesa la magnanimità ed ardore
di quella gloria che séguita dal servizio della sua patria ed utilità del geno
umano; onde appaiono instituite universitadi per le discipline di costumi,
lettere ed armi. E guarde di promettere amore, onore e premio di vita eterna ed
immortalitade a quei che approvano gli pedanti e parabolani; ma a quelli che per
adoprarsi nella perfezione del proprio ed altrui intelletto, nel servizio della
communitade, nell'osservanza espressa circa gli atti della magnanimità,
giustizia e misericordia, piaceno a gli dei. Li quali per questa caggione
magnificorno il popolo Romano sopra gli altri; perché con gli suoi magnifici
gesti, più che l'altre nazioni, si seppero conformare ed assomigliare ad essi,
perdonando a' summessi, debellando gli superbi, rimettendo l'ingiurie, non
obliando gli beneficii, soccorrendo a' bisognosi, defendendo gli afflitti,
relevando gli oppressi, affrenando gli violenti; promovendo gli meritevoli,
abbassando gli delinquenti, mettendo questi in terrore ed ultimo esterminio con
gli flagelli e secure, e quelli in onore e gloria con statue e colossi. Onde
consequentemente apparve quel popolo più affrenato e ritenuto da vizii
d'incivilitade e barbaria, e più esquisito e pronto a generose imprese,
ch'altro che si sia veduto giamai. E mentre fu tale la lor legge e religione,
tali furono gli lor costumi e gesti, tal è stato lor onore e lor felicitade.
18 \ SAUL.\ Vorrei, ch'al giudicio avesse
ordinato qualche cosa espressa contra la temeritade di questi gramatici, che in
tempi nostri grassano per l'Europa.
19 \ SOFIA\ Molto bene, o Saulino, Giove ha
comandato, imposto ed ordinato al giudizio, che veda se gli è vero che costoro
inducano gli popoli al dispreggio ed al meno a poca cura di legislatori e leggi,
con donargli ad intendere, che quelli proponeno cose impossibili e che comandano
come per burla; cioè, per far conoscere a gli uomini, che gli dei sanno
comandare quello che loro non possono mettere in esecuzione. Veda se, mentre
dicono che vogliono riformare le difformate leggi e religioni, vegnono per certo
a guastar tutto quel tanto che ci è di buono, e confirmar e inalzar a gli astri
tutto quello che vi può essere o fingere di perverso e vano. Veda se apportano
altri frutti, che di togliere le conversazioni, dissipar le concordie,
dissolvere l'unioni, far ribellar gli figli da' padri, gli servi da padroni, gli
sudditi da superiori, mettere scisma tra popoli e popoli, gente e gente,
compagni e compagni, fratelli e fratelli, e ponere in disquarto le fameglie,
cittadi, republiche e regni: ed in conclusione, se, mentre salutano con la pace,
portano, ovunque entrano, il coltello della divisione ed il fuoco della
dispersione, togliendo il figlio al padre, il prossimo al prossimo, l'inquilino
a la patria, e facendo altri divorzii orrendi e contra ogni natura e legge. Veda
se, mentre si dicono ministri d'un che risuscita morti e sana infermi, essi son
quei che, peggio di tutti altri che pasce la terra, stroppiano gli sani ed
uccideno gli vivi, non tanto con il fuoco e con il ferro, quanto con la
perniciosa lingua. Veda che specie di pace e concordia è quella, che proponeno
a gli popoli miserandi, se forse vogliono ed ambiscono, che tutto il mondo
concorde e consenta alla lor maligna e presuntuosissima ignoranza, ed approve la
lor malvaggia conscienza, mentre essi non vogliono concordare né consentire a
legge, a giustizia e dottrina alcuna; ed in tutto il resto del mondo e di secoli
non appare tanta discordia e dissonanza, quanta si convence tra loro. Per ciò
che tra diece mila di simil pedanti non si trova uno che non abbia un suo
catecismo formato; se non publicato, al meno per publicare quello che non
approva nessuna altra instituzione che la propria, trovando in tutte l'altre che
dannare, riprovare e dubitare; oltre che si trova la maggior parte di essi che
son discordi in se medesimi, cassando oggi quello che scrissero l'altro giorno.
Veda qual riuscita facciano essi, e quai costumi suscitano e provocano ne gli
altri, per quanto appartiene a gli atti de la giustizia e misericordia, e la
conservazione ed aumento di beni publici; se per lor dottrina e magistero sono
drizzate academie, universitadi, tempii, ospitali, collegii, scuole e luoghi de
discipline ed arti; o pure, dove queste cose si trovano, son quelle medesime e
fatte de medesime facultadi che erano prima che loro venissero e comparissero
tra le genti. Appresso, se per loro cura queste cose sono aumentate, o pure per
loro negligenza disminuite, poste in ruina, dissoluzione e dispersione. Oltre,
se sono occupatori di beni altrui, o pure elargitori di beni proprii; e
finalmente, se quelli, che prendono la lor parte, aumentano e stabiliscono gli
beni publici, come faceano gli lor contrarii predecessori, o pure insieme con
questi le dissipano, squartano e divorano; e mentre deprimeno l'opre, estingueno
ogni zelo di far le nuove e conservar le antiche. Se cossì è, e se tali saran
compresi e convitti; e se dopo che saranno avertiti, mostrandosi incorrigibili,
fermaranno i piedi de l'ostinazione, comanda Giove al giudizio, sotto pena della
disgrazia sua e di perdere quel grado e preeminenza che tiene nel cielo, che le
dissipe, disperda ed annulle; e spinga con qualsivoglia forza, braccio ed
industria sino a la memoria del nome di tanto pestifero germe. E gionge a
questo, che faccia intendere a tutte le generazioni del mondo, sotto pena de la
lor ruina, che s'armino in favor di esso giudizio, in sino a tanto che sarà
pienamente messo in essecuzione il decreto di Giove contra questa macchia del
mondo.
20 \ SAUL.\ Credo, o Sofia, che Giove non
cossì rigidamente voglia al fine risolvere questa misera sorte di uomini, e non
cominciarli a toccar di tal sorte, che prima che gli done la final ruina, tente
se le possa corregere, e facendoli accorgere della sua maldizione ed errore, le
provoche a pentimento.
21 \ SOFIA\ Sì bene; però Giove ha ordinato
al giudicio che proceda in quella maniera che ti dico. Vuole che li sieno tolti
tutti que' beni, che hanno acquistati coloro che predicavano, lodavano ed
insegnavano oprare, e che son stati lasciati ed ordinati da color, che opravano
e confidavano nell'opre, e che sono stabiliti da questi che hanno creduto con
quell'opre, beneficii e testamenti farsi grati a' dei; e cossì vegnano ad
execrare gli frutti ancora di quelli arbori, che procedeno da quel seme tanto
odioso a essi; e vegnano a mantenersi, conservarsi, defendersi e nodrirsi
solamente da que' frutti, da que' redditi e suffragii, li quali apportano ed
hanno apportati loro e quelli che gli credeno e che approvano e defendono questa
opinione. E che non gli sia oltre lecito d'occupare con rapina e violenta
usurpazione quello che a commune utilitade gli altri con libero e grato animo,
per mezi termini contrarii a contrario fine, hanno parturito e seminato. E
cossì escano da quelle profanate stanze e non mangino de quel pane
iscomunicato; ma vadano ad abitare in quelle pure ed incontaminate case, e si
pascano di que' cibi, che mediante la loro riformata legge li sono stati
destinati, e novamente prodotti da questi personaggi pii che fanno tanto poco
stima de l'opere operate, e solamente per una importuna, vile e stolta fantasia
si stimano regi del cielo e figli de li dei, e più credeno ed attribuiscono a
una vana, bovina ed asinina fiducia, ch'ad un utile, reale e magnanimo effetto.
22 \ SAUL.\ Subito, o Sofia, si vedrà quanto
siano atti a guadagnarsi un palmo di terra questi che sono cossì effusi e
prodighi a donar regni de' cieli; e conoscerassi de quelli altri imperatori del
cielo empireo quanto liberalmente de la propria sustanza gli lor Mercurii, che
forse, per la poca fede che hanno nell'opre di carità, ridurranno in necessità
di andar a lavorar i campi, o a far altr'arte questi lor celesti messaggieri:
che, senza altrimente beccarsi il cervello, le assicurano che non so qual
giustizia d'un altro è fatta giustizia loro propria: dalla qual purità e
giustizia per questo solo vegnano esclusi, che per sassinii, rapine, violenze ed
omicidii ch'abbiano fatti, si sgomentino, e per elemosine, atti di liberalitade,
misericordia e giustizia si confideno, si attribuiscano e sperino punto.
23 \ SOFIA\ Come è possibile, o Saulino, che
le conscienze talmente affette possano giamai aver vero amore d'oprar bene, e
vera penitenza e timore di commettere qualsivoglia ribaldaria, se per commessi
errori vegnono tanto assicurati, e per opre di giustizia son messi in tanta
diffidenza?
24 \ SAUL.\ Tu vedi gli effetti, Sofia; perché
è cosa vera e certa, come essi sono veri e certi, che, quando da qualsivoglia
altra professione e fede alcuno si muove a questa, da quel che era già
liberale, doviene avaro, da quel ch'era mite, è fatto insolente, da umile lo
vedi superbo, da donator del suo è rubbator ed usurpator de l'altrui, da buono
è ipocrita, da sincero è maligno, da semplice è malizioso, da riconoscente di
sé è arrogantissimo, da abile a qualche bontà e dottrina è prono ad ogni
sorte d'ignoranza e ribaldaria; ed in conclusione, da quel che possea esser
tristo, è dovenuto pessimo, che non può esser peggiore.
2 \ SAUL.\ È ben tempo dopo che, donata la
raggione de la collocazione e situazione de' buoni numi in loco dove erano
quelle bestie, si vegga quali altri sieno ordinati di succedere al luogo de
l'altre; e se vi piace, non vi sia grave di farmi sempre intendere la raggione e
causa. Eravamo ieri su aver narrato, come il padre Giove ha donata ispedizione
ad Ercole; però consequentemente per la prima è da vedere, che cosa abbia
fatto succedere in suo luogo.
3 \ SOFIA\ Io, o Saulino, ho inteso in verità
accaduto in cielo altro che quel tanto, che in fantasia, in sogno, in ombra, in
spirito di profezia vedde Crantore circa il dibatto de la Ricchezza, Voluptà,
Sanità e Fortezza. Perché, quando Giove ebbe escluso Ercole da là, subito si
mese avanti la Ricchezza, e disse: - A me, o padre, conviene questo loco. - A
cui rispose Giove: - Per qual caggione? - E lei: - Anzi mi maraviglio, disse,
che sin tanto abbi differito di collocarmi, e prima che ti ricordassi di me, hai
non solo collocate altre dee ed altri numi che mi denno cedere, ma oltre hai
sostenuto che bisognasse che io da per me medesima venesse ad opponermi e
presentarmi contra il pregiudizio mio e torto che mi fate. - E Giove rispose:
-Dite pur la vostra causa, Ricchezza; perché io non stimo d'averti fatto torto
col non darti una de le stanze già proviste; ma ancora credo di non fartene con
negarti la presente che è da provedere: e forse ti potrai accorgere di peggio
che non ti pensi. - E che peggio mi può e deve accadere per vostro giudizio, di
quel che m'è accaduto? -disse la Ricchezza. - Dimmi, con qual raggione m'hai
preposta la Veritate, la Prudenza, la Sofia, la Legge, il Giudicio, se io son
quella, per cui la Veritate si stima, la Prudenza si dispone, la Sofia è
preggiata, la Legge regna, il Giudicio dispone, e senza me la Verità è vile,
la Prudenza è sciagurata, la Sofia è negletta, la Legge è muta, il Giudicio
è zoppo; perché io a la prima dono campo, alla seconda do nervo, alla terza
lume, a la quarta autoritade, al quinto forza; a tutte insieme giocundità
bellezza ed ornamento, e le libero da fastidii e miserie? - Rispose Momo: - O
Ricchezza, tu non dici il vero più che il falso; perché tu oltre sei quella
per cui zoppica il Giudizio, la Legge sta in silenzio, la Sofia è calpestrata,
la Prudenza è incarcerata e la Verità è depressa, quando ti fai compagna di
buggiardi e ignoranti, quando favorisci col braccio de la sorte la pazzia,
quando accendi e cattivi gli animi ai piaceri, quando amministri alla violenza,
quando resisti a la giustizia. Ed appresso, a chi ti possiede non meno apporti
fastidio che giocondità, difformità che bellezza, bruttezza che ornamento; e
non sei quella, che dài fine a' fastidii e miserie, ma che le muti e cangi in
altra specie. Sì che in opinione sei buona, ma in verità sei più malvaggia;
in apparenza sei cara, ma in esistenza sei vile; per fantasia sei utile, ma in
effetto sei perniciosissima; atteso che per tuo magistero, quando investisci di
te qualche perverso (come per ordinario sempre ti veggio in casa di scelerati,
raro vicina ad uomini da bene), là a basso hai fatta la Veritade esclusa fuor
de le cittadi a gli deserti, hai rotte le gambe a la Prudenza, hai fatta
vergognar la Sofia, hai chiusa la bocca a la Legge, non hai fatto aver ardire al
Giudicio, tutti hai resi vilissimi. -Ed in questo, o Momo, rispose la Ricchezza,
puoi conoscere la mia potestate ed eccellenza: che io, aprendo e serrando il
pugno, e per comunicarmi o qua o là, fo che questi cinque numi vagliano,
possano e facciano, o ver sieno spreggiati, banditi e ributtati; e per dirla,
posso cacciarle al cielo o ne l'inferno. - Qua rispose Giove: - Non vogliamo in
cielo e in queste sedie altro che buoni numi. Da qua si togliano que' che son
rei, e quei che o sono più rei che buoni, e quei che indifferentemente son
buoni e rei; tra gli quali io penso che sei tu, che sei buona con gli buoni, e
pessima con gli scelerati.
4 - Sai, o Giove, disse la Ricchezza, che io
per me son buona, e non sono per me indifferente o neutra, o d'una ed altra
maniera, come dici, se non in quanto di me altri bene si vogliano servire o
male. - Qua rispose Momo: - Tu dunque, Ricchezza, sei una Dea maneggiabile,
servibile, contrattabile, e che non ti governi da te stessa, e che non sei
veramente quella che reggi e disponi de altri, ma di cui altri disponeno, e che
sei retta da altri; onde sei buona quando altri ti maneggiano bene, sei mala
quando sei mal guidata; sei, dico, buona in mano della Giustizia, della Sofia,
della Prudenza, della Religione, della Legge, della Liberalità ed altri numi;
sei ria se gli contrarii di questi ti maneggiano: come sono la violenza,
l'avarizia, l'ignoranza ed altri. Come, dunque, da per te non sei né buona né
ria, cossì credo essere bene, se Giove il consente, che per te non abbi né
vergogna né onore; e per consequenza non sii degna d'aver propria stanza, né
ad alto tra gli dei e numi celesti, né a basso tra gli inferi, ma che
eternamente vadi da loco in loco, da regione in regione.
5 Arrisero tutti gli dei al dir di Momo, e
Giove sentenziò cossì: - Sì che, Ricchezza, quando sei di Giustizia, abitarai
nella stanza della Giustizia; quando sei di Verità, sarai dove è l'eccellenza
di quella; quando sei di Sapienza e Sofia, sederai nel solio suo; quando di
voluttuarii piaceri, tròvati là dove sono; quando d'oro ed argento, allora ti
caccia ne le borse e casce; quando di vino, oglio e frumento, va fìccate ne le
cantine e magazini; quando di pecore, capre e buovi, va a pascolar con essi e
posa ne gli greggi ed armenti.
6 Cossì Giove l'impose quello che deve fare
quando si trova con gli pazzi, e come si deve comportare quando è in casa di
sapienti; in che modo per l'avenire perseverar debba a far come per il passato
(forse perché non si può far altro), di farsi in certo modo facilmente trovare
ed in certo modo difficilmente. Ma quella raggione e modo non la fece intendere
a molti; se non che Momo alzò la voce e gli ne dié un'altra, se non fu quella
medesima via, cioè: - Nessuno ti possa trovare senza che prima si sia pentito
d'aver avuto buona mente e sano cervello. - Credo che volesse dire, che bisogna
perdere la considerazione ed il giudicio di prudenza, non pensando mai
all'incertezza ed infidelità de tempi, non avendo riguardo alla dubia ed
instabile promessa del mare, non credere a cielo, non guardare a giustizia o a
ingiustizia, ad onore o vergogna, a bonaccia o tempesta, ma tutto si commetta a
la fortuna: - E che ti guardi di farti mai domestica di quei che con troppo
giudicio ti cercano; e color meno ti veggano che con più tendicoli, lacci e
reti di providenza ti perseguitano; ma per l'ordinario va' dove son gli più
insensati, pazzi, stracurati e stolti; ed in conclusione, quando sei in terra,
guàrdati da' più savii come dal fuoco: e cossì sempre accòstati e fatti
familiare a gente semibestiali, e tieni sempre la medesima regola che tiene la
fortuna.
7 \ SAUL.\ È ordinario, o Sofia, che gli più
savii non son gli più ricchi; o perché si contentano di poco, e quel poco
stimano assai, se è sufficiente a la vita; o per altre cause, che forse, mentre
sono attenti a imprese più degne, non troppo vanno vagando qua e là per
incontrarsi a uno di questi numi, che son le ricchezze o la fortuna. Ma séguita
il tuo raggionamento.
8 \ SOFIA\ Non sì tosto la Povertà vedde la
Ricchezza, sua nemica, esclusa, che con una più che povera grazia si fece
innante; e disse che per quella raggione, che facea la Ricchezza indegna di quel
loco, lei ne dovea essere stimata degnissima, per esser contraria a colei. A cui
rispose Momo: - Povertà, Povertà, tu non sareste al tutto Povertà, se non
fussi ancora povera d'argumenti, sillogismi e buone consequenze. Non per questo,
o misera, che siete contrarie, séguita che tu debbi essere investita di quello
che lei è dispogliata o priva, e tu debbi essere quel tanto che lei non è:
come, verbigrazia (poi che bisogna donartelo ad intendere con essempio), tu devi
essere Giove e Momo, perché lei non è Giove né Momo: ed in conclusione ciò
che si niega di quella, debba essere affirmato di te; perché quelli che son
più ricchi de dialettica che tu non sei, sanno che li contrarii non son
medesimi con positivi e privativi, contradittorii, varii, differenti, altri,
divisi, distinti e diversi. Sanno ancora che per raggione di contrarietà
séguita, che non possiate essere insieme in un loco; ma non che, dove non è
quella e non può esser quella, sii tu, o possi esser tu. - Qua risero tutti li
dei, quando veddero Momo voler insegnar logica a la Povertà; ed è rimasto
questo proverbio in cielo: Momo è maestro de la Povertà, o ver: Momo insegna
dialettica a la Povertà. E questo lo dicono, quando vogliono delleggiar qualche
fatto scontrafatto. - Che dunque ti par che si debba far di me, o Momo? - disse
la Povertà. - Determina presto, perché io non sono sì ricca di paroli e
concetti che possa disputar con Momo, né sì copiosa d'ingegno che possa molto
imparar da lui.
9 Allora Momo dimandò a Giove per quella volta
licenza, se voleva che determinasse. A cui Giove: - Ancora mi burli, o Momo? che
hai tanta licenza, che sei più licenzioso (volsi dir licenziato) tu solo che
tutti gli altri. Dona pur sicuro la sentenza a costei; perché, se la sarà
buona, l'approvaremo. - Allora Momo disse: - Mi par congruo e condigno ch'ancor
questa se la vada spasseggiando per quelle piazze, nelle quali si vede andar
circumforando la Ricchezza, e corra e discorra, vada e vegna per le medesime
campagne; perché (come vogliono gli canoni del raziocinio) per raggione di
cotai contrarii questa non deve entrare se non là onde quella fugge, e non
succedere se non là d'onde quella si parte; e quella non deve succedere ed
entrare se non là d'onde questa si parte e fugge; e sempre l'una sia a le
spalli de l'altra, e l'una doni la spinta a l'altra, non toccandosi mai da
faccia a faccia, ma dove l'una ha il petto, l'altra abbia il tergo, come se
giocassero (come facciamo noi tal volta) al giuoco de la rota del scarpone.
10 \ SAUL.\ Che disse sopra di questo Giove con
gli altri?
11 \ SOFIA\ Tutti confirmaro e ratificaro la
sentenza.
12 \ SAUL.\ La Povertà che disse?
13 \ SOFIA\ Disse: - Non mi par cosa degna, o
dei (se pur il mio parer ha luogo, e non sono a fatto priva di giudicio), che la
condizion mia debba essere al tutto simile a quella de la Ricchezza. - A cui
rispose Momo: - Da l'antecedente, che versate nel medesimo teatro e rapresentate
la medesima tragedia o comedia, non devi tirar questa consequenza, che vengate
ad essere di medesima condizione, quia contraria versantur circa idem. -
Vedo, o Momo, disse la Povertà, che tu ti burli di me; che anco tu, che fai
professione de dir il vero e parlar ingenuamente, mi dispreggi; e questo non mi
par che sia il tuo dovero, perché la Povertà è più degnamente difesa tal
volta, anzi il più de le volte, che la Ricchezza. - Che vuoi che ti faccia,
rispose Momo, se tu sei povera a fatto a fatto? La Povertà non è degna de
difensione, se è povera di giudizio, di raggione, di meriti e di sillogismi,
come sei tu, che m'hai ridutto a parlar ancor per le regole analittiche delli
Priori e Posteriori d'Aristotele.
-14 \ SAUL.\ Che cosa me dici, Sofia? Dunque li
dei prendeno qualche volta Aristotele in mano? studiano verbigrazia ne gli
filosofi?
15 \ SOFIA\ Non ti dirò di vantaggio di quel
ch'è su la Pippa, la Nanna, l'Antonia, il Burchiello, l'Ancroia, ed un altro
libro, che non si sa, ma è in questione s'è di Ovidio o Virgilio, ed io non me
ne ricordo il nome, ed altri simili.
16 \ SAUL.\ E pur adesso trattano cose tanto
gravi e seriose?
17 \ SOFIA\ E ti par che quelle non son
seriose? non son gravi? Saulino, se tu fussi più filosofo, dico più accorto,
credereste che non è lezione, non è libro che non sia essaminato da dei, e
che, se non è a fatto senza sale, non sia maneggiato da dei; e che, se non è
tutto balordesco, non sia approvato e messo con le catene nella biblioteca
commune; perché pigliano piacere nella moltiforme representazione di tutte cose
e frutti moltiformi de tutti ingegni, perché loro si compiaceno in tutte le
cose che sono, e tutte le representazioni che si fanno, non meno che essi hanno
cura che sieno, e donano ordine e permissione che si facciano. E pensa ch'il
giudicio de gli dei è altro che il nostro commune, e non tutto quello che è
peccato a noi e secondo noi, è peccato a essi e secondo essi. Que' libri certo
cossì, come le teologie, non denno esser communi a gli uomini ignoranti, che
medesimi sono scelerati; perché ne ricevono mala instituzione.
18 \ SAUL.\ Or non son libri fatti da uomini di
mala fama, disonesti e dissoluti, e forse a mal fine?
19 \ SOFIA\ È vero; ma non sono senza la sua
instituzione e frutti della cognizione de chi scrive, come scrive, perché ed
onde scrive, di che parla, come ne parla, come s'inganna lui, come gli altri
s'ingannano di lui, come si declina e come s'inclina a uno affetto virtuoso e
vizioso, come si muove il riso, il fastidio, il piacere, la nausea; ed in tutto
è sapienza e providenza, ed in ogni cosa è ogni cosa, e massime è l'uno dove
è l'altro contrario, e questo massime si cava da quello.
20 \ SAUL.\ Or torniamo al proposito donde ne
ha divertiti il nome d'Aristotele e la fama de la Pippa. Come fu licenziata la
Povertà da Giove, dopo che era sì schernita da Momo?
21 \ SOFIA\ Io non voglio referir tutti gli
ridicoli propositi che passâro tra quello e colei, la quale non meno momezzava
di Momo che di essa seppe momezzar colui. Dechiarò Giove, che questa abbia di
privileggii e prorogative che non ha quella in queste cose qua a basso.
22 \ SAUL.\ Dite le cose che sono.
23 \ SOFIA\ - Voglio, disse il padre, in prima,
che tu, Povertà, sii oculata, e sappi ritornar facilmente là d'onde tal volta
ti partiste, e discacciar con maggior possa la Ricchezza; che per il contrario
tu vegni scacciata da quella la qual voglio che sia perpetuamente cieca.
Appresso voglio che tu, Povertà, sii alata, destra ed ispedita per le piume che
son fatte d'aquila o avoltore; ma ne li piedi voglio che sii come un vecchio
bove che tira il grave aratro, che profonda ne le vene de la terra: e la
Ricchezza, per il contrario, abbia l'ali tarde e gravi, accomodandosi quelle
d'un'oca o cigno; ma gli piedi sieno di velocissimo corsiero o cervio, a fine
che, quando lei fugge da qualche parte adoprando gli piedi, tu con il batter de
l'ali vi ti facci presente; ed onde tu con opra de le ali tue disloggi, quella
possa succedere con l'uso di suoi piedi: di maniera che con quella medesima
prestezza che da lei sarai fuggita o perseguitata, tu vegni a perseguitarla e
fuggirla.
24 \ SAUL.\ Perché non le fa o ambe due bene
in piuma, o ambe due bene in piedi, se niente meno se potrebbono accordare di
perseguitarsi e fuggirsi, o tardi o presto?
25 \ SOFIA\ Perché, andando la Ricchezza
sempre carca, viene per la soma a impacciar alcunamente l'ali, e la Povertà,
andando sempre discalza, facilmente per ruvidi camini viene ad essere offesa
negli piedi: però questa in vano arrebe le piante, e quella le piume veloci.
26 \ SAUL.\ Questa risoluzione mi contenta. Or
séguita.
27 \ SOFIA\ Oltre vuole, che la Povertà
massimamente séguite la Ricchezza, e sia fuggita da quella quando si versa
nelli palaggi terreni, ed in quelle stanze nelle quali ha il suo imperio la
Fortuna; ma allor che ella s'appiglia a cose alte e rimosse dalla rabbia del
tempo e di quell'altra cieca, non voglio che abbi tanto ardire o forza d'assalir
per farla fuggire e tôrgli il loco. Perché non voglio che facilmente si parta
da là dove con tanta difficultade e dignitade bisogna pervenire; e cossì, per
a l'incontro, abbi tu quella fermezza nelle cose inferiori che lei può avere
nelle superiori. - Anzi, soggionse Giove, voglio che in certo modo in voi vegna
ad essere una certa concordia d'una non leggiera sorte, ma di grandissima
importanza; a fin che non pensi, che con esser bandita dal cielo vegni più
relegata ne l'inferno, che, per il contrario, con esser tolta da l'inferno,
vegni collocata in cielo: di maniera che la condizion de la Ricchezza, la quale
ho detta, vegna incomparabilmente meglior che la tua. Però voglio, che tanto si
manche che l'una discacce l'altra dal loco del suo maggior domìno, che più
tosto l'una si mantegna e fomente per l'altra, di maniera che tra voi sia
strettissima amicizia e familiaritade.
28 \ SAUL.\ Fatemi presto intendere come sia
questo.
29 \ SOFIA\ Disse Giove, soggiongendo a quel
ch'avea detto: -Tu, Povertà, quando sarai di cose inferiori, potrai esser
gionta, alligata e stretta alla Ricchezza di cose superiori, quanto mai la tua
contraria Ricchezza di cose inferiori esser possa; perché con questa nessuno,
che è savio e vuole sapere, stimarà giamai posser aggiongersi a cose grandi,
atteso che alla filosofia donano impedimento le ricchezze, e la Povertade porge
camino sicuro ed ispedito: essendo che non può essere la contemplazione, ove è
circonstante la turba di molti servi, dove è importuna la moltitudine di
debitori e creditori, computi di mercanti, raggioni di villici, la pastura di
tante pancie mal avezze, l'insidie di tanti ladroni, occhii de avidi tiranni ed
exazioni de infidi ministri: di maniera che nessuno può gustar che cosa sia
tranquillità di spirito, se non è povero o simile al povero. Appresso voglio
che sia grande colui che ne la povertà è ricco, perché si contenta; e sia
vile e servo colui che ne le ricchezze è povero, perché non è sazio. Tu sarai
sicura e tranquilla; lei turbida, sollecita, suspetta ed inquieta; tu sarai più
grande e magnifica, dispreggiandola, che esser mai possa lei, riputandosi e
stimandosi; a te, per isbramarti, voglio che baste la sola opinione; ma per far
lei satolla, non voglio che sia sufficiente tutta la possessione de le cose.
Voglio che tu sii più grande con togliere dalle cupiditadi, che non possa esser
quella con aggiongere alle possessioni. A te voglio che siano aperti gli amici,
a quella occolti gli nemici. Tu con la legge della natura voglio che sie ricca,
quella con tutti studii ed industrie civili poverissima; perché non colui che
ha poco, ma quello che molto desidera, è veramente povero. A te (se strengerai
il sacco della cupidità) il necessario sarà assai, e poco sarà bastante; ed a
lei niente baste, benché ogni cosa con le spalancate braccia apprenda. Tu,
chiudendo il desiderio tuo, potrai contendere de la felicità con Giove; quella,
amplificando le fimbrie de la concupiscenza, più e più si sommerga al baratro
de le miserie. - Conchiuso ch'ebbe Giove l'espedizione di costei, contentissima
chiese licenza di far il suo camino; e la Ricchezza fece segno di volersi
un'altra volta accostar, per sollicitar il conseglio con qualche nuova proposta;
ma non gli fu lecito di giongere più paroli.
30 - Via, via! li disse Momo. Non odi quanti ti
chiamano, ti cridano, ti priegano, ti sacrificano, ti piangono, e con sì gran
voti e stridi, che ormai hanno tutti noi altri assorditi, ti appellano? E tu ti
vai tanto trattenendo e strafuggendo per queste parti? Va via presto, a la
mal'ora, se non ti piace andar a la buona. - Non t'impacciar di questo, o Momo,
li disse il padre Giove, lascia che si parta e vada, quando gli pare e piace. -
Ella mi par in vero, disse Momo, cosa degna di compassione ed una specie
d'ingiustizia a riguardo de chi non vi provede, e puote, che questa meno vada a
chi più la chiama e richiama, ed a chi più la merita, meno s'accosta. -
Voglio, disse Giove, quel che vuole il fato.
31 \ SAUL.\ Fanne altrimente, dovea dire Momo.
32 \ SOFIA\ - Io voglio, ch'al rispetto de le
cose là basso questa sia sorda: e che giamai, per esser chiamata, risponda o
vegna; ma, guidata più da la sorte e la fortuna, vada a la cieca ed a tastoni
ad comunicarsi a colui, che verrà a rancontrarsegli tra la moltitudine. -
Quindi averrà, disse Saturno, che si comunicarà più presto ad uno de gran
poltroni e forfanti, il numero de quali è come l'arena che ad alcuno che sia
mediocremente uomo da bene: e più tosto ad uno di questi mediocri che sono
assai, che ad uno de più principali che son pochissimi; e forse mai, anzi
certamente mai a colui che è più meritevole che gli altri, ed unico individuo.
33 \ SAUL.\ Che disse Giove a questo?
34 \ SOFIA\ - Cossì bisogna che sia; è donata
dal fato questa condizione a la Povertà, che la sia chiamata con desiderio da
rarissimi e pochissimi, ma che ella si comuniche e si presente a gli assaissimi
e moltitudine più grande; la Ricchezza, per il contrario, chiamata, desiderata,
invocata, adorata ed aspettata da quasi tutti, vada a far copia di sé a
rarissimi, e quei che manco la coltivano ed aspettano. Questa sia sorda a fatto,
che da quantunque grande strepito e fragore non si smuova e sia dura e salda che
a pena tirata da rampini ed argani si approssime a chi la procaccia; e quella
auritissima, prestissima, prontissima, che ad ogni minimo sibilo, cenno, da
quantunque lontana parte chiamata, subito sia presente: oltre che per
l'ordinario la si trova a la casa ed a te spalli de chi non solo non la chiama,
ma ed oltre con ogni diligenza da lei s'asconde.
-35 Mentre la Ricchezza e la Povertà cedevano
al luogo: - Olà, disse Momo, che ombra è quella familiare a que' dua
contrarii, e che è con la Ricchezza e che è con la Povertà? Io soglio vedere
d'un medesimo corpo ombre diverse; ma de diversi corpi medesima ombra, non
giamai, che io abbia notato, eccetto ch'adesso. - A cui rispose Apollo: - Dove
non è lume, tutto è un'ombra; ancor che sieno diverse ombre, se son senza
lume, si confondeno e sono una: come quando son molti lumi senza che qualche
densità di corpo opaco se gli oppona o interpona, tutti concorreno a far un
splendore. -Qua non mi par che debbia esser cossì: disse Momo; perché, dove è
la Ricchezza, ed è a fatto esclusa la Povertà, e dove è la Povertà,
suppositalmente distinta da la Ricchezza, non come doi lumi concorrenti in un
soggetto illuminabile, si vede quella essere un'ombra che è con l'una e con
l'altra. -Guardala bene, o Momo, disse Mercurio, e vedrai che non è un'ombra. -
Non dissi che è ombra, rispose Momo, ma che è gionta a quelli doi numi, come
una medesima ombra a doi corpi. Oh adesso considero; la mi par la Avarizia, che
è una ombra: è le tenebre che sono della Ricchezza, ed è le tenebre che sono
de la Povertà. - Cossì è, disse Mercurio: è ella figlia e compagna della
Povertà, nemicissima de la sua madre, e che quanto può la fugge; inamorata ed
invaghita de la Ricchezza, alla quale, quantunque sia giunta, sempre sente il
rigor de la madre che la tormenta: e benché li sia appresso, li è lungi, e
benché li sia lungi, li è appresso, perché, se si gli discosta, secondo la
verità gli è intrinseca, e gionta secondo l'esistimazione. E non vedi che
essendo gionta e compagna de la Ricchezza, fa che la Ricchezza non sia
Ricchezza, e lunghi essendo da la Povertà, fa che la Povertà non sia Povertà?
Queste tenebre, questa oscurità, questa ombra è quella che fa la Povertà
esser mala e la Ricchezza non esser bene; e non si trova senza malignar l'una de
le due, o ambe due insieme; rarissime volte né l'una né l'altra: e questo è
quando sono da ogni lato circondate dalla luce della raggione ed intelletto. -
Qua dimandò Momo a Mercurio, che li facesse intendere come quella faceva la
Ricchezza non essere ricchezze. A cui rispose, che il ricco avaro è
poverissimo; perché l'avarizia non è dove sono ricchezze, se non vi è anco la
Povertà; la quale non men veramente se vi trova per virtù de l'affetto, che
ritrovar si possa per virtù d'effetto; di sorte che questa ombra, al suo marcio
dispetto, mai si può discostare da la madre più che da se stessa.
36 Mentre questo dicevano, Momo, il quale non
è senza buonissima vista (benché non sempre vegga a la prima), con avere messo
più d'attenzione: - O Mercurio, disse, quello ch'io ti dicevo essere come
un'ombra, adesso scorgo che son tante bestie insieme insieme; perché la veggio
canina, porcina, arietina, scimica, orsina, aquilina, corvina, falconina,
leonina, asinina, e quante nine e nine bestie giamai fûro; e tante bestie è
pur un corpo. La mi par certo il pantamorfo de gli animali bruti. - Dite meglio,
rispose Mercurio, che è una bestia moltiforme; la pare una, ed è una; ma non
è uniforme, come è proprio de vizii de aver molte forme, percioché sono
informi e non hanno propria faccia, al contrario de le virtudi. Qualmente vedi
essere la sua nemica liberalitade, la quale è semplice ed una; la giustizia è
una e semplice; come ancora vedi la sanità essere una, e gli morbi
innumerabili. - Mentre Mercurio diceva questo, Momo gl'interruppe il
raggionamento, e gli disse: - Io veggio, che la ha tre teste in sua mal'ora;
pensavo, o Mercurio, che la vista mi fusse turbata, quando di questa bestia
sopra un busto scorgevo uno ed uno ed un altro capo; ma, poi che ho voltato
l'occhio per tutto, e visto che non è altro che mi paia similmente, conchiudo
che non è altrimente che come io veggio. - Tu vedi molto bene, rispose
Mercurio. Di quelle tre teste l'una è la illiberalità, l'altra è il brutto
guadagno, l'altra è la tenacità. - Dimandò Momo, se quelle parlavano; e
Mercurio rispose che sì, e che la prima dice: Meglio esser più ricco che esser
stimato più liberale e grato; la seconda: Non ti morir di fame per esser
gentiluomo; la terza dice: Se non mi è onore, mi è utile. - E pur non hanno
più che due braccia? disse Momo. - Bastano le due mani, rispose Mercurio, de le
quali la destra è aperta aperta, larga larga, per prendere; l'altra è chiusa
chiusa, stretta stretta, per tenere, e porgere come per distillazione e per
lambicco, senza raggione di tempo e loco, come ancor senza raggione di misura. -
Accostatevi alquanto più a me, tu, Ricchezza e Povertà, disse Momo, a fin che
io possa meglior vedere la grazia di questa vostra bella pedissequa. - Il che
essendo fatto, disse Momo: - È un volto, son più volti; è una testa, son più
teste; è femina, è femina; ha la testa molto picciola, benché la faccia sia
più che mediocre; è vecchia, è vile, è sordida, ha 'l viso rimesso, è di
color nero; la veggio rugosa, ed ha capelli retti ed adri, occhi attentivi,
bocca aperta ed anelante, e naso ed artigli adunchi; (maraviglia) essendo un
animal pusillo, ha il ventre tanto capace e voraginoso, imbecille, mercenario e
servile, ch'il volto drizzato a le stelle incurva. Zappa, s'infossa; e per
trovar qualche cosa, s'immerge al profondo de la terra, e dando le spalli a la
luce, a gli antri tende ed a le grotte, dove giamai giunse differenza del giorno
e de la notte; ingrata, a la cui perversa speranza giamai fia molto, assai o
bastante quel che si dona, e che quanto più cape tanto si fa più cupa: come la
fiamma che più vorace si fa quanto è più grande. Manda, manda, scaccia,
scaccia presto, o Giove, da questi tenimenti la Povertà e la Ricchezza insieme,
e non permettere che s'accostino alle stanze de dei, se non vegnono senza questa
vile ed abominevol fiera! - Rispose Giove: - Le vi verranno addosso ed appresso,
come voi vi disporrete a riceverle. Per il presente se ne vadano con la già
fatta risoluzione, e venemo noi presto al fatto nostro di determinare il nume
possessor di questo campo.
37 Ed ecco, mentre il padre degli dei si volta
in circa, da per se medesima impudentemente e con una non insolita arroganza si
fece innante la Fortuna, e disse: - Non è bene, o Dei consulari, e tu, o gran
sentenziator Giove, che, dove parlano e possono essere tanto udite la Povertà e
Ricchezza, io sia veduta come pusillanime tacere per viltade, e non mostrarmi, e
con ogni raggione risentirmi. Io, che son tanto degna e tanto potente, che metto
avanti la Ricchezza, la guido e spingo dove mi pare e piace, d'onde voglio la
scaccio e dove voglio la conduco, con oprar la successione e vicissitudine de
quella con la Povertade; ed ognun sa che la felicitade di beni esterni non si
può riferir più alla Ricchezza, come a suo principio, che a me; sicome la
beltà della musica ed eccellenza de l'armonia da qualcuno non si deve più
principalmente referire alla lira ed instrumento, che a l'arte ed a l'artefice
che le maneggia. Io son quella dea divina ed eccellente, tanto desiderata, tanto
cercata, tanto tenuta cara, per cui per il più de le volte è ringraziato
Giove, dalla cui mano aperta procede la ricchezza, e dalle cui palme chiuse
tutto il mondo plora, e si metteno sozzopra le citadi, regni ed imperii. Chi mai
offre voti alla Ricchezza o alla Povertà? chi le ringrazia mai? Ognuno che
vuole e brama quelle, chiama me, invoca me, sacrifica a me; chiunque viene
contento per quelle, ringracia me, rende mercé alla Fortuna, per la Fortuna
pone al foco gli aromati, per la Fortuna fumano gli altari. E che sono una
causa, la quale quanto son più incerta tanto sono più veneranda e formidanda,
e tanto son desiderabile ed appetibile quanto mi faccio meno compagna e
familiare; perché ordinariamente nelle cose meno aperte, più occolte e
maggiormente secrete si trova più dignità e maestade. Io che col mio splendore
infosco la virtude, denigro la veritade, domo e dispreggio la maggior e meglior
parte di queste dee e dei che veggio apparecchiati e messi come in ordine per
prendersi piazza in cielo; ed io che ancor qua, in presenza di tale e tanto
senato, sola metto terrore a tutti; perché (benché non ho la vista che mi
serva) ho pur orecchie, per le quali comprendo, ad una gran parte de loro,
battere e percuotersi gli denti per il timore che concepeno dalla mia
formidabile presenza; quantunque con tutto ciò non perdano l'ardire e
presunzione di mettersi avanti, a farsi nominare, dove prima non è stato
disposto della mia dignitade; che ho sovente, e più che sovente, imperio sopra
la Raggione, Veritade, Sofia, Giustizia ed altri numi; li quali, se non vogliono
mentire di quello che è a tutto l'universo evidentissimo, potranno dire se
possono apportar computo del numero de le volte che le ho buttate giù da le
catedre, sedie e tribunali loro, ed a mia posta le ho reprimute, legate,
rinchiuse ed incarcerate. Ed anco per mia mercé poi ed altre volte hanno potuto
uscire, liberarsi, ristabilirse e riconfirmarse, mai senza timore delle mie
disgrazie. -Momo disse: - Comunemente, o cieca madonna, tutti gli altri dei
aspettano la retribuzion di queste sedie per l'opre buone ch'han fatte, facciono
e posson fare: e per tali il senato s'è proposto di premiar quelli; e tu,
mentre fai la causa tua, ne ameni la lista e processo di que' tuoi delitti per
gli quali non solo dereste esser bandita dal cielo, ma e da la terra ancora. -
Rispose la Fortuna, che lei non era men buona che altri boni; e che la fusse
tale, non era male; perché, quanto il fato dispone, tutto è bene; e se la
natura sua fusse tale, come de la vipera, che è naturalmente velenosa, in
questo non sarrebe sua colpa, ma o de la natura, o d'altro, che l'ha talmente
instituita. Oltre che nessuna cosa è absolutamente mala; perché la vipera non
è mortale e tossicosa a la vipera; né il drago, il leone, l'orso a l'orso, al
leone, al drago; ma ogni cosa è mala a rispetto di qualch'altro; come voi, dei
virtuosi, siete mali ad riguardo de viziosi, quei del giorno e de la luce son
mali a quei de la notte ed oscuritade: e voi tra voi siete buoni, e lor tra loro
son buoni; come aviene anco ne le sette del mondo nemiche, dove gli contrarii
tra essi se chiamano figli de dei e giusti; e non meno questi di quelli, che
quelli di questi, li più principali e più onorati chiamano peggiori e più
riprovati. Io, dunque, Fortuna, quantunque a rispetto d'alcuni sia reproba, a
rispetto d'altri son divinamente buona; ed è sentenza passata della maggior
parte del mondo, che la fortuna de gli omini pende dal cielo; onde non è stella
minima né grande, che appaia nel firmamento, da cui non si dica ch'io dispenso.
- Qua rispose Mercurio, dicendo che troppo equivocamente era preso il suo nome:
perché tal volta per la Fortuna non è altro che uno incerto evento de le cose;
la quale incertezza a l'occhio de la providenza è nulla, benché sia massima a
l'occhio de mortali. - La Fortuna non udiva questo, ma seguitava, ed a quel
ch'avea detto, aggiunse che gli più egregii ed eccellenti filosofi del mondo,
quali son stati Empedocle ed Epicuro, attribuiscono più a lei che a Giove
istesso, anzi che a tutto il concilio de dei insieme. -Cossì tutti gli altri,
diceva, e me intendeno Dea, e me intendeno celeste Dea, come credo che non vi
sia novo a l'orecchie questo verso, il quale non è putto abecedario che non
sappia recitare: Te facimus, Fortuna, deam, caeloque locamus.
38 E voglio ch'intendiate, o Dei, con quanta
verità da alcuni son detta pazza, stolta, inconsiderata, mentre son essi sì
pazzi, sì stolti, sì inconsiderati che non sanno apportar raggione de l'esser
mio; ed onde trovo di que' che son stimati più dotti che gli altri, quali in
effetto dimostrano e conchiudeno il contrario, per quanto son costretti dal
vero; talmente mi dicono irrazionale e senza discorso, che non per questo
m'intendeno brutale e sciocca, atteso che con tal negazione non vogliono
detraermi, ma attribuirmi di vantaggio; come ed io tal volta voglio negar cose
piccole per concedere le maggiori. Non son, dunque, da essi compresa come chi
sia ed opre sotto la raggione e con la raggione; ma sopra ogni raggione, sopra
ogni discorso ed ogni ingegno. Lascio che pur in effetto s'accorgeno e
confessano, ch'io ottegno ed esercito il governo e regno massime sopra gli
razionali, intelligenti e divini: e non è savio che dica me effettuar col mio
braccio sopra cose prive di raggione ed intelletto, quai sono le pietre, le
bestie, gli fanciulli, gli forsennati ed altri che non hanno apprensione di
causa finale e non possono oprare per il fine. - Te dirò, disse Minerva, o
Fortuna, per qual caggione ti dicono senza discorso e raggione. A chi manca
qualche senso, manca qualche scienza, e massime quella che è secondo quel
senso. Considera di te, tu ora essendo priva del lume de gli occhi, li quali son
la massima causa della scienza. - Rispose la Fortuna, che Minerva o s'ingannava
lei, o voleva ingannar la Fortuna; e si confidava di farlo, perché la vedea
cieca: -Ma, quantunque io sia priva d'occhio, non son però priva.d'orecchio ed
intelletto, - gli disse.
39 \ SAUL.\ E credi che sia vero questo, o
Sofia?
40 \ SOFIA\ Ascolta, e vedrai come sa
distinguere, e come non gli sono occolte le filosofie e, tra l'altre cose, la
Metafisica d'Aristotele. - Io, diceva, so che si trova chi dica la vista essere
massimamente desiderata per il sapere; ma giamai conobbi sì stolto che dica la
vista fare massimamente conoscere. E quando alcuno disse, quella essere
massimamente desiderata, non voleva per tanto, che quella fusse massimamente
necessaria, se non per la cognizione di certe cose: quai sono colori, figure,
simmetrie corporali, bellezze, vaghezze ed altre visibili che più tosto
sogliono perturbar la fantasia ed alienar l'intelletto; ma non che fusse
necessaria assolutamente per le tutte o megliori specie di cognizione, perché
sapea molto bene che molti, per dovenir sapienti, s'hanno cavati gli occhi; e di
quei che o per sorte o per natura son stati ciechi, molti son visti più
mirabili, come ti potrei mostrar assai Democriti, molti Tiresii, molti Omeri e
molti come il Cieco d'Adria. Appresso credo che sai distinguere, se sei Minerva,
che, quando un certo filosofo Stagirita disse che la vista è massimamente
desiderata per il sapere, non comparava la vista con altre specie di mezzi per
conoscere, come con l'udito, con la cogitazione, con l'intelletto; ma facea
comparazione tra questo fine de la vista, che è il sapere, e altro fine, che la
medesima si possa proponere. Però, se non ti rincresce d'andar sin ai campi
Elisii a raggionar con lui (se pur non ha indi fatta partenza per altra vita, e
bevuto de l'onde di Lete), vedrai che lui farà questa chiosa: Noi desideramo la
vista massime per questo fine di sapere; e non quell'altra: Noi desideramo tra
gli altri sensi massime la vista per sapere.
41 \ SAUL.\ È maraviglia, o Sofia, che la
Fortuna sappia discorrere meglio, e meglio intender gli testi che Minerva, la
quale è soprastante a queste intelligenze.
42 \ SOFIA\ Non ti maravigliare; perché,
quando profondamente considerarai, e quando pratticarai e conversarai ben bene,
trovarai che li graduati dei de le scienze e de l'eloquenze e de gli giudizii
non sono più giudiziosi, più savi e più eloquenti de gli altri. Or, per
seguitare il proposito della causa sua, che faceva la Fortuna nel senato, disse,
parlando a tutti: - Niente, niente, o dei, mi toglie la cecità, niente che
vaglia, niente che faccia alla perfezione de l'esser mio; per ciò che, s'io non
fusse cieca, non sarei Fortuna, e tanto manca che per questa cecità possiate
disminuire o attenuar la gloria di miei meriti, che da questa medesima prendo
argumento della grandezza ed eccellenza di quelli: atteso che da quella verrò a
convencere ch'io sono meno astratta da gli atti della considerazione, e non
posso esser ingiusta nelle distribuzioni. - Disse Mercurio a Minerva: - Non
arrai fatto poco, quando arrai dimostrato questo. - E soggionse la Fortuna: -
Alla mia giustizia conviene essere tale; alla vera giustizia non conviene, non
quadra, anzi ripugna ed oltraggia l'opra de gli occhi. Gli occhi son fatti per
distinguere e conoscere le differenze (non voglio per ora mostrar quanto sovente
per la vista sono ingannati quei che giudicano); io sono una giustizia che non
ho da distinguere, non ho da far differenze; ma come tutti sono principalmente,
realmente e finalmente uno ente, una cosa medesima (perché lo ente, uno e vero
son medesimo), cossì ho da ponere tutti in certa equalità, stimar tutti
parimente, aver ogni cosa per uno, e non esser più pronta a riguardare, a
chiamar uno che un altro, e non più disposta a donar ad uno che ad un altro, ed
essere più inclinata al prossimo che al lontano. Non veggio mitre, toghe,
corone, arti, ingegni; non scorgo meriti e demeriti; perché, se pur quelli si
trovano, non son cosa da natura altra ed altra in questo ed in quello, ma
certissimamente per circostanze ed occasione, o accidente che s'offre, si
rancontra e scorre in questo o in quello; e però, quando dono, non vedo a chi
dono; quando toglio, non vedo a chi toglio: acciò che in questo modo io vegna a
trattar tutti equalmente e senza differenza alcuna. E con questo certamente io
vegno ad intendere e fare tutte le cose equali e giuste, e giusta- ed equalmente
dispenso a tutti. Tutti metto dentro d'un'urna, e nel ventre capacissimo di
quella tutti confondo, inbroglio ed exagito; e poi, zara a chi tocca; e chi l'ha
buona, ben per lui, e chi l'ha mala, mal per lui! In questo modo, dentro l'urna
de la Fortuna non è differente il più grande dal più picciolo; anzi là tutti
sono equalmente grandi ed equalmente piccioli, perché in essi s'intende
differenza da altri che da me: cioè prima che entrino ne l'urna, e dopo che
esceno da l'urna. Mentre son dentro, tutti vegnono dalla medesima mano, nel
medesimo vase, con medesima scossa isvoltati. Però, quando poi si prendeno le
sorti, non è raggionevole che colui, a chi tocca mala riuscita, si lamente o di
chi tiene l'urna, o de l'urna, o de la scossa, o di chi mette la mano a l'urna;
ma deve, con la meglior e maggior pazienza ch'ei puote, comportar quel ch'ha
disposto e come ha disposto, o è disposto il Fato: atteso che, quanto al
rimanente, lui è stato equalmente scritto, la sua schedula era uguale a quella
de tutti gli altri, è stato parimente annumerato, messo dentro, scrollato. Io
dunque, che tratto tutto il mondo equalmente, e tutto ho per una massa, di cui
nessuna parte stimo più degna ed indegna de l'altra, per esser vase
d'opprobrio; io che getto tutti nella medesima urna della mutazione e moto, sono
equale a tutti, tutti equalmente remiro, o non remiro alcuno particulare più
che l'altro, vegno ad esser giustissima ancor ch'a tutti voi il contrario
appaia. Or che a la mano, che s'intrude a l'urna, prende e cava le sorti, per
chi tocca il male, e per chi tocca il bene, occorra gran numero d'indegni e raro
occorrano meritevoli: questo procede dalla inequalità, iniquità ed ingiustizia
di voi altri, che non fate tutti equali, e che avete gli occhi delle
comparazioni, distinzioni, imparitadi ed ordini, con gli quali apprendete e fate
differenze. Da voi, da voi, dico, proviene ogni inequalità, ogni iniquitade;
perché la dea Bontade non equalmente si dona a tutti; la Sapienza non si
communica a tutti con medesima misura; la Temperanza si trova in pochi; a
rarissimi si mostra la Veritade. Cossì voi altri numi buoni siete scarsi, siete
parzialissimi, facendo le distantissime differenze, le smisuratissime
inequalitadi e le confusissime sproporzioni nelle cose particolari. Non sono,
non son io iniqua, che senza differenza guardo tutti, ed a cui tutti sono come
d'un colore, come d'un merito, come d'una sorte. Per voi aviene, che, quando la
mia mano cava le sorti, occorrano più frequentemente, non solo al male, ma
ancora al bene, non solo a gl'infortunii, ma ancora a le fortune, più per
l'ordinario gli scelerati che gli buoni, più gl'insipidi che gli sapienti, più
gli falsi che gli veraci. Perché questo? perché? Viene la Prudenza e getta ne
l'urna non più che doi o tre nomi; viene la Sofia e non ve ne mette più che
quattro o cinque; viene la Verità e non ve ne lascia più che uno, e meno, se
meno si potesse: e poi di cento millenarii che son versati ne l'urna, volete che
alla sortilega mano più presto occorra uno di questi otto o nove, che di otto o
novecento mila. Or fate voi il contrario! Fa', dico, tu, Virtù, che gli
virtuosi sieno più che gli viziosi; fa' tu, Sapienza, che il numero de savii
sia più grande che quello de stolti; fa' tu, Verità, che vegni aperta e
manifesta a la più gran parte: e certo certo a gli ordinarii premii e casi
incontraranno più de le vostre genti che de gli loro oppositi. Fate che sieno
tutti giusti, veraci, savii e buoni; e certo certo non sarà mai grado o
dignità ch'io dispense, che possa toccare a buggiardi, a iniqui, a pazzi. Non
son, dunque, più ingiusta io che tratto e muovo tutti equalmente, che voi altri
che non fate tutti equali. Tal che, quando aviene che un poltrone o forfante
monta ad esser principe o ricco, non è per mia colpa, ma per iniquità di voi
altri che, per esser scarsi del lume e splendor vostro, non lo sforfantaste o
spoltronaste prima, o non lo spoltronate e sforfantate al presente, o almeno
appresso lo vegnate a purgar della forfantesca poltronaria, a fine che un tale
non presieda. Non è errore che sia fatto un prencipe, ma che sia fatto prencipe
un forfante. Or essendo due cose, cioè principato e forfantaria, il vizio
certamente non consiste nel principato che dono io, ma ne la forfanteria, che
lasciate esser voi. Io perché muovo l'urna e caccio le sorti, non riguardo più
a lui che ad un altro; e però non l'ho determinato prima ad esser principe o
ricco (benché bisogna che determinatamente alla mano uno occorra tra tutti gli
altri); ma voi, che fate le distinzioni, con gli occhi mirando e communicandovi
a chi più ed a chi meno, a chi troppo ed a chi niente, siete venuti a lasciar
costui determinatamente forfante e poltrone. Se dunque, la iniquità consiste
non in fare un prencipe, e non in arricchirlo, ma in determinare un suggetto di
forfantaria e poltronaria, non verrò io ad essere iniqua, ma voi. Ecco dunque,
come il Fato m'ha fatto equissima, e non mi può aver fatta iniqua, perché mi
fa essere senz'occhi, a fin che per questo vegna a posser equalmente graduar
tutti. - Qua soggionse Momo dicendo: -Non ti diciam iniqua per gli occhi, ma per
la mano. - A cui quella rispose: - Né meno per la mano, o Momo; perché non son
più io causa del male, che le prendo come vegnono, che quelli che non vegnono
come le prendo: voglio dire, che non vegnono cossì senza differenza come senza
differenza le piglio. Non son io causa del male, se le prendo come occorreno; ma
essi che mi se presentano quali sono, ed altri che non le fanno essere
altrimente. Non son perversa io, che cieca indifferentemente stendo la mano a
quel che si presenta chiaro o oscuro, ma chi tali le fa, e chi tali le lascia, e
me l'invia. - Momo suggionse: - Ma, quando tutti venessero indifferenti, uguali
e simili, non mancareste per tanto ad essere pur iniqua: perché, essendo tutti
equalmente degni di prencipato, tu non verrai a farli tutti prencipe, ma un solo
tra quelli. - Rispose sorridendo la Fortuna: -Parliamo, o Momo, de chi è
ingiusto, e non parliamo de chi sarrebe ingiusto. E certo, con questo tuo modo
di proponere o rispondere, tu mi pari assai a sufficienza convitto, poiché da
quel che è in fatto, sei proceduto a quel che sarrebe; e da quel che non puoi
dire ch'io sono iniqua, vai a dire ch'io sarrei iniqua. Rimane dunque, secondo
la tua concessione, ch'io son giusta, ma sarrei ingiusta; e che voi siete
ingiusti, ma sarreste giusti. Anzi, a quel ch'è detto aggiongo, che non
solamente non sono, ma né pure sarrei men giusta allora, quando voi m'offressi
tutti uguali; perché, quanto a quello che è impossibile, non s'attende
giustizia né ingiustizia. Or non è possibile che un principato sia donato a
tutti; non è possibile che tutti abbiano una sorte; ma è possibile ch'a tutti
sia ugualmente offerta. Da questo possibile séguita il necessario, cioè che de
tutti bisogna che riesca uno; ed in questo non consiste l'ingiustizia ed il
male; perché non è possibile che sia più ch'uno; ma l'errore consiste in quel
che séguita, cioè che quell'uno è vile, che quell'uno è forfante, che
quell'uno non è virtuoso; e di questo male non è causa la Fortuna che dona
l'esser prencipe ed esser facultoso; ma la dea Virtù che non gli dona, né gli
donò esser virtuoso. - Molto eccellentemente ha fatte le sue raggioni la
Fortuna, disse il padre Giove, e per ogni modo mi par degna d'aver sedia in
cielo; ma ch'abbia una sedia propria, non mi par convenevole, essendo che non
n'ha meno che sono le stelle; perché la Fortuna è in tutte quelle non meno che
ne la terra, atteso che quelle non manco son mondi che la terra. Oltre, secondo
la generale esistimazion de gli uomini, da tutte si dice pendere la Fortuna: e
certo, se avessero più copia d'intelletto, direbono qualche cosa di vantaggio.
Però (dica Momo quel che gli piace), essendo che le tue raggioni, o Dea, mi
paiono pur troppo efficaci, conchiudo che, se non offriranno in contrario de la
tua causa altre allegazioni, che vagliano più di queste sin ora apportate, io
non voglio ardire di definirti stanza, come già volesse astrengerti o relegarti
a quella; ma ti dono, anzi ti lascio in quella potestà che mostri avere in
tutto il cielo: poi che per te stessa tu hai tanta autorità, che puoi aprirti
que' luoghi che son chiusi a Giove istesso insieme con tutti gli altri dei. E
non voglio dir più circa quello per il che ti siamo tutti insieme ubligati
assai assai. Tu, disserrando tutte le porte, ed aprendoti tutt'i camini e
disponendoti tutte le stanze, fai tue tutte le cose aliene; e però non manca
che le sedie che son degli altri, non siano pur tue; per ciò che quanto è
sotto il fato della mutazione, tutto tutto passa per l'urna, per la rivoluzione
e per la mano de l'eccellenza tua.
-2 Or essendo finita questa lite e donato
spaccio alla Fortuna, voltato Giove a gli dei: - Mi par, disse, che in loco
d'Ercole debba succedere la Fortezza, perché da dove è la verità, la legge,
il giudicio, non deve esser lunghi la fortezza; perché constante e forte deve
essere quella voluntà che administra il giudicio con la prudenza, per la legge,
secondo la verità: atteso che come la verità e la legge formano l'intelletto,
la prudenza, il giudicio e giustizia regolano la voluntà; cossì la constanza e
fortezza conducono a l'effetto. Onde è detto da un sapiente: Non ti far
giudice, se con la virtude e forza non sei potente a rompere le machine de
l'iniquitade. - Risposero tutti gli dei: - Bene hai disposto, o Giove, che
Ercole sin ora sia stato come tipo de la fortezza che dovea contemplarsi ne gli
astri. Succedi tu, Fortezza, con la lanterna de la raggione innante, perché
altrimente non sareste fortezza, ma stupidità, furia, audacia. E non sareste
stimata fortezza, né men sareste; perché per pazzia, errore ed alienazion di
mente verreste a non temere il male e la morte. Quella luce farà che non
ardisci dove si deve temere: atteso che tal cosa il stolto e forsennato non teme
che, quanto uno è più prudente e saggio, deve più paventare. Quella farà che
dove importa l'onore, l'utilità publica, la dignità e perfezione del proprio
essere, la cura delle divine leggi e naturali, ivi non ti smuovi per terrori che
minacciano morte; sie presta ed ispedita dove gli altri son torpidi e tardi;
facilmente comporti quel ch'altri difficilmente; abbi per poco o nulla ciò che
altri stimano molto ed assai. Modera le tue male compagne: e quella che ti viene
a destra con le sue ministre, Temeritade, Audacia, Presunzione, Insolenzia,
Furia, Confidenzia; e quella, che ti vien alla sinistra con la Povertà di
spirto, Deiezione, Timore, Viltade, Pusillanimitade, Desperazione. Conduci le
tue virtuose figlie, Sedulità, Zelo, Toleranza, Magnanimità, Longanimità,
Animosità, Alacrità, Industria, con il libro del catalogo delle cose che si
governano con Cautela, o con Perseveranza, o con Fuga, o con Sufferenza; ed in
cui son notate le cose ch'il forte non deve temere: cioè quelle che non ne
fanno peggiore, come la Fame, la Nudità, la Sete, il Dolore, la Povertà, la
Solitudine, la Persecuzione, la Morte; e de l'altre cose che, per ne rendere
peggiori, denno essere con ogni diligenza fuggite: come l'Ignoranza crassa,
l'Ingiustizia, l'Infidelità, la Buggia, l'Avarizia e cose simili. Cossì
contemperandoti, non declinando a destra ed a sinistra, e non allontanandoti da
tue figlie, leggendo ed osservando il tuo catalogo, non facendo estinto il tuo
lume, sarai sola tutela de Virtudi, unica custodia di Giustizia e torre
singulare de la Veritade; inespugnabile da' vizii, invitta da le fatiche,
constante a gli perigli, rigida contra le voluttadi, spreggiatrice de la
Ricchezza, domitrice della Fortuna, triomfatrice del tutto. Temerariamente non
ardirai, inconsultamente non temerai; non affettarai gli piaceri, non fuggirai
gli odori; per falsa lode non ti compiacerai, e per vituperio non ti
sgomentarai; non t'inalzarai per le prosperitadi, non ti dismetterai per le
adversitadi; non t'impiombarà la gravità de fastidii, non ti sulleverà il
vento de la leggerezza; non ti farà gonfia la ricchezza, e non ti confondarà
la povertade: spreggiarai il soverchio, arrai poco senso del necessario.
Divertirai da cose basse, e sarai sempre attenta ad alte imprese.
-3 - Or, che ordine si prenderà per la mia
Lira? - disse Mercurio. A cui rispose Momo: - Abbila per teco per tuo
passatempo, quando ti trovi in barca o pur quando ti trovarai nell'ostarie. E se
fai elezione di farne qualche presente, donandola a chi più meritevolmente si
conviene, e non vuol andar troppo vagando per cercarlo, vattene a Napoli, a la
piazza de l'Olmo; over in Venezia in piazza di S. Marco, circa il vespro:
perché in questi doi luoghi compariscono gli corifei di color che montano in
banco; ed ivi ti potrà occorrere quel megliore a cui iure meriti la si
debbia. - Dimandò Mercurio: - Perché più tosto a megliori di questa che di
altra specie? - Rispose Momo, che a questi tempi la lira è dovenuto
principalmente instrumento da chiarlatani, per conciliarsi e trattenersi
l'udienza, e meglior vendere le sue pallotte ed albarelli, come la rebecchina
ancora è fatto instrumento da ciechi mendicanti. Mercurio disse: - E in mia
potestà di farne quel che mi piace? - Cossì è, disse Giove; ma non già per
ora di lasciarla star in cielo. E voglio (se cossì pare ancor a voi altri del
conseglio) che in luogo di questa sua lira de le nove corde succeda la gran
madre Mnemosine con le nove Muse, sue figlie. - Qua fêrno un chino di testa gli
dei tutti in segno di approvazione; e la Dea promossa con le sue figlie rese le
grazie. L'Aritmetrica, la quale è primogenita, disse che le ringraziava per
più volte che non concepe individui e specie di numeri, ed oltre per più
millenarii de millenarii che mai possa con le sue addizioni apportar
l'intelletto; la Geometria più che mai forme e figure formar si vagliano, e che
atomi possa mai incorrere per le fantastiche resoluzioni di continui; la Musica
più che mai fantasia possa combinar forme di concenti e sinfonie; la Logica
più che non fanno absurdità li suoi gramatici, false persuasioni i suoi
retorici, e sofismi e false demostrazioni i dialettici; la Poesia più che, per
far correre le lor tante favole, non hanno piedi quanti han fatti e son per far
versi i suoi cantori; la Astrologia più che contegna stelle l'inmenso spacio
dell'eterea regione, se più dir si puote; la Fisica tante mercé li rese,
quante possono essere prossimi e primi principii ed elementi nel seno de la
natura; la Metafisica più che non son geni d'idee e specie de fini ed
efficienti sopra gli naturali effetti, tanto secondo la realità che è ne le
cose, quanto secondo il concetto representante; l'Etica, quanti possono essere
costumi, consuetudini, leggi, giustizie e delitti in questo ed altri mondi de
l'universo. La madre Mnemosine disse: - Tante grazie e mercé vi rendo, o dei,
quanti esser possono particolari suggetti a la memoria ed a l'oblio, alla
cognizione ed ignoranza. - Ed in questo mentre Giove ordinò alla sua
primogenita Minerva, che gli porgesse quella scatola che teneva sotto il
capezzal del letto; ed indi cacciò nove bussole, le quali contegnono nove
collirii che son stati ordinati per purgar l'animo umano, e quanto alla
cognizione e quanto alla affezione. E primamente ne donò tre alle tre primiere,
dicendogli: - Eccovi il meglior unguento con cui possiate purgar e chiarir la
potenza sensitiva circa la moltitudine, grandezza ed armonica proporzione di
cose sensibili. - Ne dié uno a la quarta, e disse: - Questo servirà per far
regolata la facultà inventiva e giudicativa. - Prendi questo, disse a la
quinta, che con suscitar certo melancolico appulso è potente ad incitar a
delettevole furore e vaticinio. - Donò il suo a la sesta, mostrandogli il modo,
con cui mediante quello aprisse gli occhi de mortali alla contemplazion di cose
archetipe e superne. La settima ricevé quello per cui meglio vien riformata la
facultà razionale circa la contemplazion de la natura. La ottava, l'altro non
meno eccellente che promove l'intelletto all'apprension di cose sopranaturali,
in quanto che influiscono ne la natura e sono in certo modo absolute da quella.
L'ultimo, più grande, più precioso e più eccellente, dié in mano de
l'ultimogenita; la quale, quanto è posterior de l'altre tutte, tanto è più
che tutte l'altre degna; e gli disse: - Ecco qua, Etica, con cui prudentemente,
con sagacità, accortezza e generosa filantropia saprai instituir religioni,
ordinar gli culti, metter leggi ed esecutar giudicii; ed approvare, confirmare,
conservar e defendere tutto il che è bene instituito, ordinato, messo ed
esecutato, accomodando quanto si può gli affetti ed effetti al culto de dei e
convitto de gli uomini.
-4 - Che faremo del Cigno? - dimandò Giunone.
Rispose Momo: -Mandiamolo in nome del suo diavolo a natar con gli altri, o nel
lago di Pergusa, o nel fiume Caistro, dove arrà molti compagni - Non voglio
cossì, disse Giove; ma ordino che nel becco sia marcato del mio sigillo e messo
nel Tamesi; perché là sarà più sicuro ch'in altra parte, atteso che per la
tema di pena capitale non mi potrà essere così facilmente rubbato. -
Saviamente, suggionsero gli dei, hai provisto, o gran padre; - ed aspettavano
che Giove determinasse del successore. Onde séguita il suo decreto il primo
presidente, e dice: - Mi par molto convenevole che vi sia locata la Penitenza,
la qual tra le virtudi è come il cigno tra gli ucelli: perché la non ardisce,
né può volar alto per il gravor dell'erubescenza ed umile recognizion di se
stessa, si mantiene sommessa; però, togliendosi a l'odiosa terra, e non ardendo
de s'inalzare al cielo, ama gli fiumi, s'attuffa a l'acqui, che son le lacrime
della compunzione nelle quali cerca lavarsi, purgarsi, mondarsi, dopo ch'a sé
nel limoso lido de l'errore insporcata dispiacque, mossa dal senso di tal
dispiacere, è incorsa la determinazione del corregersi, e, quanto possibil fia,
farsi simile alla candida innocenza. Con questa virtù risaleno l'anime che son
ruinate dal cielo ed inmerse a l'Orco tenebroso, passate per il Cocito de le
voluttadi sensitive, ed accese dal Periflegetonte de l'amor cupidinesco ed
appetito di generazione; de quali il primo ingombra il spirto di tristizia, ed
il secondo rende l'alma disdegnosa; come per rimembranza de l'alta ereditade
ritornando in se medesima, dispiace a se medesima per il stato presente; si
duole per quel che si delettò e non vorrebe aver compiaciuto a se stessa: ed in
questo modo viene a poco a poco a dispogliarsi dal presente stato,
attenuandosegli la materia carnale ed il peso de la crassa sustanza; si mette
tutta in piume, s'accende e si scalda al sole, concepe il fervido amor di cose
sublimi, doviene aeria, s'appiglia al sole e di bel nuovo si converte al suo
principio. - Degnamente la Penitenza è messa tra le virtudi, disse Saturno;
perché, quantunque sia figlia del padre Errore e de l'Iniquitade madre, è
nulladimeno come la vermiglia rosa che da le adre e pungenti spine si caccia; è
come una lucida e liquida scintilla che dalla negra e dura selce si spicca,
fassi in alto e tende al suo cognato sole. - Ben provisto, ben determinato! -
disse tutto il concilio de gli dei. - Sieda la Penitenza tra le virtudi, sia uno
de gli celesti numi!
-5 A questa voce generale, prima ch'altro
proponesse di Cassiopea, alzò la voce il furibondo Marte, e disse: - Non sia, o
dei, chi tolga alla mia bellicosa Ispagna questa matrona che cossì boriosa,
altiera e maestrale non si contentò di salir al cielo senza condurvi la sua
catedra col baldacchino. Costei (se cossì piace al padre summitonante, e se voi
altri non volete discontentarmi a rischio di patir a buona misura il simile,
quando mi passarete per le mani) vorrei che, per aver costumi di quella patria,
e parer ivi nata, nodrita ed allevata, determiniate che la vi soggiorne. -
Rispose Momo: - Non sia chi tolga l'arroganza e questa femina, ch'è vivo
ritratto di quella, al signor bravo capitan di squadre. - A cui Marte: - Con
questa spada farò conoscere non solamente a te poveraccio, che non hai altra
virtude e forza che de lingua fracida senza sale; ma ed oltre a
qualsivogli'altro (fuor di Giove, per essere superior di tutti), che sotto
quella che voi dite iattanza, dica non si trovar bellezza, gloria, maestà,
magnanimità, e fortezza degna della protezion del scudo marziale; e di cui
l'onte non son indegne d'esser vendicate da questa orribil punta chi ha soluto
domar uomini e dei. - Abbila pur, soggionse Momo, in tua mal'ora teco: perché
tra noi altri dei non vi trovarai un altro sì bizzarro e pazzo, che, per
guadagnarsi una de queste colubre e tempestose bestie, voglia mettersi a rischio
di farsi rompere il capo. - Non te incolerar, Marte, non ti rabbiar, Momo, disse
il benigno protoparente. Facilmente a te, dio de la guerra, si potrà concedere
liberamente questa cosa, che non è troppo d'importanza, se ne bisogna talvolta,
al nostro dispetto, comportar, che con la sola autorità della tua fiammeggiante
spada commetti tanti stupri, tanti adulterii, tanti latrocinii, usurpazioni ed
assassinii. Va' dunque, che io insieme con gli altri dei la commettemo in tutto
alla tua libidinosa voglia; sol che non più la facci induggiar qua in mezzo a
gli astri, vicina a tante virtuose dee. Vada con la sua catedra a basso, e
conduca la Iattanzia seco. E ceda il luogo alla Semplicità, la qual declina
dalla destra di costei, che ostenta e predica più di quel che possiede, e dalla
sinistra della Dissimulazione la quale occolta e finge di non aver quel ch'ave,
e mostra posseder meno di quel che si trova. Questa pedissequa de la Veritade
non deve lungi peregrinare dalla sua regina, benché talvolta la dea Necessitade
la costringa di declinare verso la Dissimulazione, a fine che non vegna
inculcata la Simplicità o Veritade, o per evitar altro inconveniente. Questo
facendosi da lei non senza modo ed ordine, facilmente potrà essere fatto ancora
senza errore e vizio. - Andando la Semplicità per prendere il suo luogo,
comparve de incesso sicuro e confidente; al contrario de la Iattanzia e
Dissimulazione, le quali caminano non senza tema, come con gli suspiciosi passi
e formidoloso aspetto dimostravano. Lo aspetto della Simplicità piacque a tutti
gli dei, perché per la sua uniformità in certa maniera rapresenta ed ha la
similitudine del volto divino. Il volto suo è amabile, perché non si cangia
mai; e però con quella raggione, per cui comincia una volta a piacere, sempre
piacerà; e non per suo, ma per l'altrui difetto aviene che cesse d'essere
amata. Ma la Iattanzia, la qual suol piacere, per donare ad intendere di
possedere più di quel che possiede, facilmente, quando sarà conosciuta, non
solo incorrerà dispiacenza, ma ed oltre, talvolta, dispreggio. Similmente la
Dissimulazione, per esser altrimente conosciuta, che come prima si volse
persuadere, non senza difficultade potrà venir in odio a colui da chi fu prima
grata. Di queste dunque l'una e l'altra fu stimata indegna del cielo, e di esser
unita a quello che suol trovarsegli in mezzo. Ma non tanto la Dissimulazione, di
cui talvolta sogliono servirsi anco gli dei; perché talvolta, per fuggir
invidia, biasmo ed oltraggio, con gli vestimenti di costei la Prudenza suole
occultar la Veritade.
6 \ SAUL.\ È vero e bene, o Sofia; e non senza
spirto di veritade mostrò il Poeta ferrarese, questa essere molto più
conveniente a gli omini, se talvolta non è sconvenevole a dei:
Quantunque il simular sia le più volte
Ripreso, e dia di mala mente indici,
Si trova pur in molte cose e molte
Aver fatti evidenti benefici,
E danni, e biasmi, e morte aver già tolte;
Ché non conversiam sempre con gli amici
In questa assai più oscura che serena
Vita mortal, tutta d'invidia piena.
7 Ma vorrei sapere, o Sofia, in che maniera
intendi la Simplicità aver similitudine del volto divino.
8 \ SOFIA\ Per questo, che la non può
aggiongere a l'esser suo con la iattanza, e non può suttraere da quello con la
simulazione. E questo procede dal non avere intelligenza ed apprensione di se
stessa; come quello che è simplicissimo, se non vuol essere altro che
semplicissimo, non intende se stesso. Perché quello che si sente e che si
remira, si fa in certo modo molto, e, per dir meglio, altro ed altro; perché si
fa obietto e potenza, conoscente e conoscibile: essendo che ne l'atto
dell'intelligenza molte cose incorreno in uno. Però quella semplicissima
intelligenza non si dice intendere se stessa, come se avesse un atto reflesso de
intelligente ed intelligibile; ma perché è absolutissimo e semplicissimo lume,
solo dunque se dice intendersi negativamente, per quanto non si può essere
occolta. La Semplicità dunque, in quanto che non apprende e non commenta su
l'esser suo, s'intende aver similitudine divina. Dalla quale a tutta distanza
dechina la boriosa Iattanzia. Ma non tanto la studiosa Dissimulazione, a cui
Giove fa lecito che talvolta si presente in cielo, e non già come dea, ma come
tal volta ancella della Prudenza e scudo della Veritade.
9 \ SAUL.\ Or vengamo ad considerar quel ch'è
fatto di Perseo e della sua stanza.
10 \ SOFIA\ - Che farai, o Giove, di questo tuo
bastardo, che ti fêsti parturire a Danae? - disse Momo. Rispose Giove: -Vada,
se cossì piace al senato intiero (perché mi par che qualche nuova Medusa si
trova in terra, che, non meno che quella di già gran tempo, è potente di
convertere in selce col suo aspetto chiunque la remira), vada a costei non come
mandato da un nuovo Polidette, ma come inviato da Giove insieme con tutto il
senato celeste; e veda se, secondo la medesima arte, possa superare tanto più
orribile quanto più nuovo mostro. - Qua risorse Minerva, dicendo: - Ed io dal
mio canto non mancarò d'accomodargli non men commodo scudo di cristallo con cui
vegna ad abbarbagliar la vista de le nemiche Forcidi messe in custodia de le
Gorgoni; ed io in presenza voglio assistergli, sin tanto che abbia disciolto il
capo di questa Medusa dal suo busto. - Cossì, disse Giove, farai molto bene,
mia figlia; ed io te impono questa cura, nella qual voglio che t'adopri con ogni
diligenza. Ma non vorei che di nuovo faccia, che a danno de gli poveri popoli
avenga che per le stille, che scorreranno da le vene incise, vegnano generati
nuovi serpenti in terra, dove, a mal grado de miseri, vi se ne ritrovano pur
assai e troppo. Però, montato sul Pegaso, che verrà fuori del fecondo corpo di
colei, discorra (riparando al flusso de le goccie sanguinose) non già per
l'Africa dove di qualche cattiva Andromeda vegna cattivo: dalla quale, avinta in
ferree catene, vegna legato di quelle di diamante; ma col suo destriero alato
discorra la mia diletta Europa; ed ivi cerca, dove son que' superbi e mostruosi
Atlanti, nemici de la progenie di Giove, da cui temeno che gli vegnan tolte le
poma d'oro, che sotto la custodia e serragli de l'Avarizia ed Ambizione tegnono
occolte. Attenda ove son altre più generose e più belle Andromede che per
violenza di falsa religione vegnono legate ed esposte alle marine belve. Guarde
se qualche violento Fineo, constipato dalla moltitudine di perniciosi ministri,
viene ad usurparsi i frutti dell'altrui industrie e fatiche. Se qualche numero
de ingrati, ostinati ed increduli Polidetti vi presiede, facciasegli a il
specchio tutto animoso innante, presentegli agli occhi ove possono remirar il
suo fedo ritratto, dal cui orrendo aspetto impetrati perdano ogni perverso
senso, moto e vita. -.
11 - Bene ordinato il tutto, dissero gli dei.
Perché è cosa conveniente che gionto ad Ercule, che col braccio della
Giustizia e bastone del Giudicio è fatto domator de le corporee forze, compaia
Perseo, che, col specchio luminoso della dottrina e con la presentazion del
ritratto abominando de la scisma ed eresia, alla perniciosa conscienza de gli
malfattori ed ostinati ingegni metta il chiodo, togliendoli l'opra di lingua, di
mani e senso.
-12 \ SAUL.\ Venite ora, Sofia, a chiarirmi di
quello ch'è ordinato a succedere a la piazza onde fece partenza costui.
13 \ SOFIA\ Una virtude in abito e gesti niente
dissimile a costui, che si chiama Diligenza, over Sollecitudine; la qual ha ed
è avuta per compagna da la Fatica, in virtù della quale Perseo fu Perseo, ed
Ercole fu Ercole, ed ogni forte e faticoso è faticoso e forte; e per cui il
pronepote d'Abante av'intercetto alle Forcidi il lume, il capo a Medusa, il
pennato destriero al tronco busto, le sacre poma al figlio di Climene ed Iapeto,
la figlia di Cefeo ed Andromeda al Ceto, difesa la moglie dal rivale, revista
Argo sua patria, tolto il regno a Preto, restituito quello a Crisio fratello,
vendicatosi su l'ingrato e discortese re de l'isola Serifia; per cui, dico, si
supera ogni vigilanza, si tronca ogni adversa occasione, si facilita ogni camino
ed accesso, s'acquista ogni tesoro, si doma ogni forza, si toglie ogni
cattività, s'ottiene ogni desio, si defende ogni possessione, si gionge ad ogni
porto, si deprimeno tutti adversarii, si esaltano tutti amici e si vendicano
tutte ingiurie; e finalmente si viene ad ogni dissegno. Ordinò dunque Giove, e
questo ordine approvâro tutti dei, che la faticosa e diligente Sollecitudine si
facesse innante. Ed ecco che la comparve, avendosi adattati gli talari de
l'impeto divino con gli quali calpestra il sommo bene populare, spreggia le
blande carezze de le voluttadi, che, come Sirene insidiose, tentano di
ritardarla dal corso de l'opra che la ricerca ed aspetta. Appigliatasi con la
sinistra al scudo risplendente dal suo fervore, che di stupida maraviglia
ingombra gli occhi desidiosi ed inerti; compresa con la destra la serpentina
chioma di perniciosi pensieri, a' quai sottogiace quell'orribil capo, di cui
l'infelice volto da mille passioni di sdegno, d'ira, di spavento, di terrore, di
abominio, di maraviglia, di melancolia e di lugubre pentimento disformato,
sassifica ed instupisce chiunque v'affigge gli occhi; montata su quell'aligero
cavallo della studiosa perseveranza, con il quale, a quanto si forza, a tanto
arriva e giunge, superando ogni intoppo di clivoso monte, ritardamento di
profonda valle, impeto di rapido fiume, riparo di siepe densissime e di
quantunque grosse ed alte muraglia. Venuta dunque in presenza del sacrosanto
senato, udì dal sommo preside queste paroli: - Voglio, o Diligenza, che ottegni
questo nobil spacio nel cielo; perché tu sei quella che nutri con la fatica gli
animi generosi. Monta, supera e passa con uno spirto, se possibil fia, ogni
sassosa e ruvida montagna. Infervora tanto l'affetto tuo, che non solo resisti e
vinci te stessa, ma, ed oltre, non abbi senso della tua difficultade, non abbi
sentimento del tuo esser fatica; perché cossì la fatica non deve esser fatica
a sé, come a se medesimo nessun grave è grave. Però non sarai degna fatica,
se talmente non vinci te stessa, che non ti stimi essere quel che sei, fatica;
atteso che, dovunque hai senso di te, non puoi essere superiore a te; ma, se non
sei depressa o suppressa, vieni al meno ad essere oppressa da te medesima. La
somma perfezione è non sentir fatica e dolore, quando si comporta fatica e
dolore. Devi superarti con quel senso di voluttà, che non sente voluttà;
quella voluttà dico, la quale, se fusse naturalmente buona, non verrebe
dispreggiata da molti, come principio di morbi, povertade e biasimo. Ma tu,
Fatica, circa l'opre egregie sii voluttà e non fatica a te stessa; vegni, dico,
ad esser una e medesima cosa con quella, la quale fuor di quelle opre ed atti
virtuosi sia a se stessa non voluttà, ma fatica intolerabile. Su dunque, se sei
virtù, non occuparti a cose basse, a cose frivole, a cose vane. Se vuoi esser
là dove il polo sublime della Verità ti vegna verticale, passa questo
Apennino, monta queste Alpi, varca questo scoglioso Oceano, supera questi
rigorosi Rifei, trapassa questo sterile e gelato Caucaso, penetra le
inaccessibili erture, e subintra quel felice circolo, dove il lume è continuo e
non si veggon mai tenebre né freddo, ma è perpetua temperie di caldo e dove
eterna ti fia l'aurora o giorno. Passa dunque tu, dea Sollecitudine o Fatica; e
voglio (disse Giove) che la difficultade ti corra avanti e ti fugga. Scaccia la
Disaventura, apprendi la Fortuna pe' capelli; affretta, quando meglio ti pare,
il corso della sua ruota; e quando ti sembra bene, figigli il chiodo, acciò non
scorra. Voglio che teco vegna la Sanità, la Robustezza, l'Incolumità. Sia tua
scudiera la Diligenza e tuo antesignano sia l'Esercizio. Sieguati l'Acquisizione
con le munizioni sue, che son Bene del corpo, Bene de l'animo, e, se vuoi, Bene
de la fortuna; e di questi voglio che più sieno amati da te quei che tu
medesima hai acquistati, che altri che ricevi d'altrui: non altrimente che una
madre ama più li figli, come colei che più le conosce per suoi. Non voglio che
possi dividerti; perché, se ti smembrarai, parte occupandoti a l'opre de la
mente e parte a l'oprazioni del corpo, verrai ad esser defettuosa a l'una e
l'altra parte; e se più ti addonarai a l'uno, meno prevalerai ne l'altro verso:
se tutta inclinarai a cose materiali, nulla vegni ad essere in cose
intellettuali, e per l'incontro. Ordino a l'Occasione, che quando fia mestiero,
ad alta voce o con cenno o con silenzio quella chiamatati, o ti esorti, o ti
alletti, o ti inciti, o ti sforze. Comando alla Comodità ed Incomodità, che ti
avertiscano quando si possano accollare, e quando si denno poner giù le
sarcine, como talor quando è necessario transnatare. Voglio che la Diligenza ti
toglia ogni intoppo; la Vigilanza ti farà la sentinella guardando circa in
circa, a fin che cosa non ti s'appresse all'improviso; che la Indigenza ti
averta dalla Sollecitudine e Vigilanza circa cose vane; la quale se non sarà
udita da te, succeda al fine la Penitenza, la qual ti faccia esperimentar che è
cosa più laboriosa aver menate le braccia vacue, che con le mani piene aver
tirati sassi. Tu con gli piedi della Diligenza, quanto puoi, fuggi e ti
affretta, pria che Forza maggior intervegna e toglia la Libertade over porga
forza ed armi alla Difficultade.
-14 Cossì la Sollecitudine, avendo ringraziato
Giove e gli altri, prende il suo camino e parla in questa forma: - Ecco, io
Fatica muovo gli passi, mi accingo, mi sbraccio. Via da me ogni torpore, ogni
ocio, ogni negligenza, ogni desidiosa acedia, fuori ogni lentezza! Tu, Industria
mia, proponite avanti gli occhi della considerazione il tuo profitto, il tuo
fine. Rendi salutifere quelle altrui tante calunnie, quelli altrui tanti frutti
di malignitade ed invidia, e quel tuo raggionevole timore che ti cacciâro dallo
tuo natio albergo, che ti alienaro da gli amici, che ti allontanâro dalla
patria, e ti bandîro a poco amichevole contrade. Fa', Industria mia, meco
glorioso quello essilio e travagli, sopra la quiete, sopra quella patria
tranquillitade, commoditade e pace. Su, Diligenza, che fai? perché tanto ociamo
e dormiamo vivi, se tanto tanto doviamo ociar e dormire in morte? Atteso che, se
pur aspettiamo altra vita o altro modo di esser noi, non sarà quella nostra,
come de chi siamo al presente; percioché questa, senza sperar giamai ritorno,
eternamente passa. Tu, Speranza, che fai, che non mi sproni, che non m'inciti?
Su, fa' ch'io aspetti da cose difficili exito salutare, se non mi affretto
avanti tempo e non cesso in tempo; e non far ch'io mi prometta cosa per quanto
viva, ma per quanto ben viva. Tu, Zelo, siimi sempre assistente, a fine ch'io
non tente cose indegne di nume da bene, e che non stenda le mani a quei negocii
che sieno caggione di maggior negocio. Amor di gloria, presentami avanti gli
occhi quanto sia brutto a vedere, e cosa turpe di esser sollecito della sicurtà
nell'entrata e principio del negocio. Sagacità, fa' che da le cose incerte e
dubie non mi retire, né volte le spalli, ma da quelle pian piano mi discoste in
salvo. Tu medesima (acciò ch'io non sia ritrovata da nemici, ed il furor di
quelli non mi s'avente sopra) confondi, seguendomi, gli miei vestigi. Tu mi fa
menar gli passi per vie distanti da le stanze de la Fortuna, perché la non ha
lunghe le mani, e non può occupar se non quelli che gli son vicini, e non
essagita se non color che si trovano dentro la sua urna. Tu farai ch'io non
tente cosa, se non quando attamente posso; e fammi nel negocio più cauta che
forte, se non puoi farmi equalmente cauta e forte. Fa' ch'il mio lavoro sia
occolto e sia aperto: aperto, acciò che non ogniuno il cerca ed inquira;
occolto, acciò che non tutti, ma pochissimi lo ritroveno. Perché sai bene che
le cose occolte sono investigate, e le cose inserrate convitano gli ladroni.
Oltre, quel che appare, è stimato vile, e l'arca aperta non è diligentemente
ricercata, ed è creduto poco preggiato quello che non si vede con molta
diligenza messo in custodia. Animosità, con la voce del tuo vivace fervore,
quando la difficultà mi preme, oltraggia, e resiste, non mancar sovente
d'intonarmi a l'orecchio quella sentenza: Tu ne cede malis, sed contra
audentior ito.
15 Tu, Consultazion, mi farai intendere quando
mi conviene sciôrre o rompere la mal impiegata occupazione; la qual degnamente
prenderà la mira non ad oro e facultadi da volgari e sordidi ingegni; ma a que'
tesori che meno ascosi e dispersi dal tempo, son celebrati e colti nel campo de
l'eternitade; a fin che non si dica di noi, come di quelli: meditantur sua
stercora scarabaei. Tu, Pazienza, confirmami, affrenami ed administrami quel
tuo Ocio eletto, a cui non è sorella la Desidia, ma quello che è fratello de
la Toleranza. Mi farai declinar dall'inquietudine ed inclinare alla non curiosa
Sollecitudine. Allora mi negarai il correre, quando correr mi cale dove son
precipitosi, infami e mortali intoppi. Allora non mi farai alzar l'ancora e
sciôrre la poppa dal lido, quando aviene che mi commetta ad insuperabile
turbulenza di tempestoso mare. Ed in questo mi donarai ocio di abboccarmi con la
Consultazione, la quale mi farà guardar prima me stessa; secondo, il negocio
ch'ho da fare; terzo, a che fine e perché; quarto, con quai circonstanze;
quinto, quando; sesto, dove; settimo, con cui. Amministremi quell'ocio con cui
io possa far cose più belle, più buone e più eccellenti che quelle che
lascio; perché in casa de l'Ocio siede il Conseglio, ed ivi della vita beata,
meglior che in altra parte, si tratta. Indi megliormente si contemplano le
occasioni; da là con più efficacia e forza si può uscire al negocio, perché,
senza esser prima a bastanza posato, non è possibile di posser appresso ben
correre. Tu, Ozio, mi administra, per cui io vegna stimato manco ocioso che
tutti gli altri; percioché per tuo mezzo accaderà, che io serva a la republica
e defension de la patria più con la mia voce ed esortazione, che con la spada,
lancia e scudo il soldato, il tribuno, l'imperatore. Accòstati a me tu,
generoso ed eroico e sollecito Timore; e con il tuo stimolo fa' che io non
perisca prima dal numero de gl'illustri che dal numero de vivi. Fa' che prima
che il torpore e morte mi tolga le mani, io mi ritrove talmente provisto che non
mi possa togliere la gloria de l'opre. Sollecitudine, fa' che sia finito il
tetto prima che vegna la pioggia; fa' che si ripare a le fenestre pria che
soffieno gli Aquiloni ed Austri di lubrico ed inquieto inverno. Memoria del bene
adoperato corso della vita, farai tu che la senettute e morte pria mi tolga che
mi conturbe l'animo. Tu, tema di perdere la gloria acquistata ne la vita, non mi
farai acerba, ma cara e bramabile la vecchiaia e morte.
-16 \ SAUL.\ Ecco qua, o Sofia, la più degna
ed onorata ricetta per rimediar alla tristizia e dolor che apporta la matura
etade, ed all'importuno terror de la morte che da l'ora, che abbiamo uso di
sensi, suol tiranneggiar il spirto de gli animanti. Onde ben disse il nolano
Tansillo:
Godon quei, che non son ingrati al cielo,
E ad alte imprese non fur freddi e rudi;
Le staggion liete, allor che neve e gielo
Cadon su i colli d'erbe e di fior nudi,
Non han di che dolersi, ancor che, pelo
Cangiando e volto, cangin vita e studi.
Non ha l'agricoltor di che si doglia,.
Pur ch'al debito tempo il frutto coglia.
17 \ SOFIA\ Assai ben detto, Saulino. Ma è
tempo che tu ti retiri; perché ecco il mio tanto amico nume, quella grazia
tanto desiderabile, quel volto tanto spettabile da la parte orientale mi
s'avicina.
18 \ SAUL.\ Bene dunque, mia Sofia, domani a
l'ora solita, se cossì ti piace, ne revederemo. Ed io in questo mentre andarò
a delinearmi quel tanto che oggi ho udito da te, a fine che megliormente la
memoria de tuoi concetti possa, quando fia bisogno, rinovarmi, e più
comodamente per l'avenir far di quella partecipe altrui.
19 \ SOFIA\ Maraviglia, che con più del solito
frettolose piume mi viene a l'incontro; non lo veggio venir, secondo la sua
consuetudine, scherzando col caduceo e battendo sì vagamente con l'ali l'aria
liquidissimo. Parmi vederlo turbatamente negocioso. Ecco, mi rimira, e talmente
ha ver' me conversi gli occhi che fa manifesto l'ansioso pensiero non pender da
mia causa.
20 \ MERC.\ Propizio ti sia sempre il fato,
impotente sia contra di te la rabbia del tempo, mia diletta e gentil figlia e
sorella ed amica.
21 \ SOFIA\ Che cosa, o mio bel dio, ti fa sì
turbato in vista, benché al mio riguardo non mi sei men ch'altre volte liberale
di tua tanto gioconda grazia? perché ti ho veduto venir come in posta, e più
accinto di andar e passar oltre che disposto de dimorar alquanto meco?
22 \ MERC.\ La caggion di questo è che sono in
fretta mandato da Giove a proveder e riparar a l'incendio che ha cominciato a
suscitar la pazza e fiera Discordia in questo Regno Partenopeo.
23 \ SOFIA\ In che maniera, o Mercurio, questa
pestifera Erinni s'è da là de le Alpi ed il mare aventata a questo nobil
paese?
24 \ MERC.\ Dalla stolta ambizione e pazza
confidenza d'alcuno è stata chiamata; con assai liberali, ma non meno incerte
promesse è stata invitata; da fallace speranza è stata commossa; è aspettata
da doppia gelosia, la quale nel popolo adopra il voler mantenersi nella medesima
libertade in cui è stato sempre, ed il temer di subintrar più arcta servitude;
nel prencipe il suspetto di perder tutto, per aver voluto abbracciar troppo.
25 \ SOFIA\ Che cosa è primo origine e
principio di questo?
26 \ MERC.\ La grande avarizia che va lavorando
sotto pretesto di voler mantener la Religione.
27 \ SOFIA\ Il pretesto in vero mi par falso; e
se non m'inganno, è inexcusabile: perché non si richiede riparo o cautela dove
nessuna ruina o periglio minaccia, dove gli animi son tali quali erano, ed il
culto di quella dea non cespita in queste come in altre parti.
28 \ MERC.\ E quando ciò fusse, non tocca a
l'Avarizia, ma alla Prudenza e Giustizia di rimediarvi; perché ecco, che quello
ha commosso il popolo a furore, ed a la occasione pare aver tempo d'invitar gli
animi rubelli a non tanto defendere la giusta libertà, quanto ad aspirar ad
ingiusta licenza, e governarsi secondo la perniciosa e contumace libidine, a
cui.sempre fu prona la moltitudine bestiale.
29 \ SOFIA\ Dimmi, se non ti è grave, in che
maniera dite che l'Avarizia vuol rimediare?
30 \ MERC.\ Aggravando gli castighi de
delinquenti, di sorte che della pena d'un reo vegnano equalmente partecipi molti
innocenti, e tal volta gli giusti; e con ciò vegna a farsi sempre più e più
grasso il prencipe.
31 \ SOFIA\ È cosa naturale che le pecore
ch'hanno il lupo per governatore, vegnano castigate con esser vorate da lui.
32 \ MERC.\ Ma è da dubitare che qualche volta
sia sufficiente la sola cupa fame ed ingordiggia del lupo a farle colpevoli. Ed
è contra ogni legge, che per difetto del padre, vegnano multati gli agnelli e
la madre.
33 \ SOFIA\ È vero che mai ho trovato tal
giudizio se non tra' fieri barbari, e credo che prima fusse trovato tra' Giudei,
per esser quella una generazione tanto pestilente, leprosa e generalmente
perniciosa, che merita prima esser spinta che nata. Sì che, per venire al
nostro proposito, questa è la caggione che ti tien turbato, suspeso, e per cui
fia mestiero che subito mi lasci?
34 \ MERC.\ Cossì è; ho voluto far questo
camino per convenirti prima che giunga a le parti, dove ho drizzato il volo, per
non farti vanamente aspettare, e non mancar a la promessa che feci ieri. A Giove
ho mosso qualche proposito de casi tuoi, e lo veggio più ch'al solito inchinato
a compiacerti. Ma per quattro o cinque giorni, ed oggi tra gli altri, io non ho
ocio di trattar e conferir teco quello che doviamo negociare in proposito de
l'instanza che devi fare; però arai pazienza in questo mentre, atteso che
meglio è trovar Giove ed il senato feriante da altri impacci, che in quella
maniera che puoi credere che sia al presente.
35 \ SOFIA\ Mi piace l'aspettare, perché con
questo che la cosa verrà proposta più tardi, potrà anco megliormente essere
ordinata. Ed a dire il vero, io in gran fretta (per non mancar il mio dovero per
la promessa che ti avevo fatta di commetterti oggi la richiesta) non ho possuto
satisfar a me medesima, atteso che penso che le cose denno essere esposte più
per particolare che non ho fatto in questa nota; la quale ecco vi porgo, perché
veggiate (se vi occorrerà ocio per il camino) la somma de le mie querele.
36 \ MERC.\ Io vedrò questa; ma voi farrete
bene di servirvi della commodità di questo tempo per far più lungo e distinto
memoriale, a fine che si possa a pieno provedere al tutto. Io adesso per la
prima, per confondere la forza, voglio andar a suscitar l'Astuzia; acciò che
gionta a l'Inganno, dettar possa una lettera di tradimento contra la pretenduta
ambiziosa Ribellione; per la qual finta lettera si diverta l'empito maritimo del
Turco, ed obste al Gallico furore ch'a lunghi passi da qua de l'Alpi per terra
s'avicina. Cossì per difetto di Forza si spinga l'ardire, si tranquille il
popolo, s'assicure il prencipe, ed il timore spinga la sete de l'Ambizione ed
Avarizia senza bere. E con ciò al fine vegna richiamata la bandita Concordia, e
posta nella sua catedra la Pace, mediante la confirmazione dell'antiqua
Consuetudine di vivere, con abolizione di perigliosa ed.ingrata Novitade.
37 \ SOFIA\ Va dunque, mio Nume, e piaccia al
fato che felicemente vegnano adempiti i tuoi dissegni, perché non vegna la mia
nemica guerra a turbar il stato mio, non meno che quel de gli altri.
2 \ SAUL.\ Dite, che io vi ascolto.
3 \ SOFIA\ Subito (perché il sprone
dell'Ambizione sovente sa spingere ed incitar tutti eroici e divini ingegni, sin
a questi dei compagni Ocio e Sogno) avenne che non ociosa e sonnacchiosamente,
ma solleciti e senza dimora, non sì tosto la Fatica e Diligenza disparve, che
essi vi furono visti presenti. Per il che disse Momo: - Liberaci, Giove, da
fastidio, perché veggio aperto che ancora non mancaranno garbugli dopo
l'espedizione di Perseo, come n'abbiamo avuti tanti dopo quella d'Ercole. - A
cui rispose Giove: - L'Ocio non sarrebe Ocio, ed il Sonno non sarrebe Sonno, se
troppo a lungo ne dovessero molestare per troppa diligenza o fatica che debbano
prendere; perché quella è discostata da qua, come vedi; e questi son qua solo
in virtù privativa che consiste nell'absenza de la lor opposita e nemica. -
Tutto passarà bene, disse Momo, se non ne faranno tanto ociosi e lenti, che per
questo giorno non possiamo definire di quello che si deve conchiudere circa il
principale. - Cominciò, dunque, l'Ocio in questa maniera a farsi udire: -
Cossì l'Ocio, o dei, è talvolta malo, come la Diligenza e Fatica è più de le
volte mala: cossì l'Ocio il più de le volte è conveniente e buono, come le
sue volte è buona la Fatica. Non credo dunque, se giustizia tra voi si trova,
che vogliate negarmi equale onore, se non è debito che mi stimiate manco degno.
Anzi per raggione mi confido di farvi capire (per causa di certi propositi che
ho udito allegare in lode e favore della diligenza e negocio) che quando saremo
posti nel bilancio della raggionevole comparazione, se l'Ozio non si trovarà
equalmente buono, si convencerà di gran vantaggio megliore, di maniera che non
solo non la mi stimarete equalmente virtude, ma, oltre, contrariamente vizio.
4 Chi è quello, o dei, che ha serbata la tanto
lodata età de l'oro? chi l'ha instituta, chi l'ha mantenuta, altro che la legge
de l'Ocio, la legge della natura? Chi l'ha tolta via? chi l'ha spinta quasi
irrevocabilmente dal mondo, altro che l'ambiziosa Sollecitudine, la curiosa
Fatica? Non è questa quella ch'ha perturbato gli secoli, ha messo in scisma il
mondo e l'ha condotto ad una etade ferrigna e lutosa ed argillosa, avendo posti
gli popoli in ruota ed in certa vertigine e precipizio, dopo che l'ha sullevati
in superbia ed amor di novità, e libidine de l'onore e gloria d'un particolare?
Quello che, in sustanza, non dissimile a tutti, e tal volta, in dignitade e
merito, è infimo a que' medesimi, con malignitade è stato forse superiore a
molti, e però viene ad essere in potestà di evertere le leggi de la natura, di
far legge la sua libidine, a cui servano mille querele, mille orgogli, mille
ingegni, mille sollecitudini, mille di ciascuno de gli altri compagni, con gli
quali cossì boriosa è passata avanti la Fatica; senza gli altri che sotto le
vesti di que' medesimi coperti ed occolti non son apertamente giti, come
l'Astuzia, la Vanagloria, il Dispreggio d'altri, la Violenza, la Malizia, la
Fizione e gli seguaci loro che non son passati per la presenza vostra; quai sono
Oppressione, Usurpazione, Dolore, Tormento, Timore e Morte; li quali son gli
executori e vendicatori mai del quieto Ocio, ma sempre della sollecita e curiosa
Industria, Lavoro, Diligenza, Fatica; e cossì di tanti altri nomi, di quanti,
per meno essere conosciuta, se intitula, e per quali più tosto si viene ad
occoltare che a farsi sapere.
5 Tutti lodano la bella età de l'oro, ne la
quale facevo gli animi quieti e tranquilli, absoluti da questa vostra virtuosa
dea; a gli cui corpi bastava il condimento de la fame a far più suave e lodevol
pasto le ghiande, li pomi, le castagne, le persiche e le radici, che la benigna
natura administrava, quando con tal nutrimento meglio le nutriva, più le
accarezzava e per più tempo le manteneva in vita, che non possano far giamai
tanti altri artificiosi condimenti ch'ha ritrovati l'Industria ed il Studio,
ministri di costei; li quali, ingannando il gusto ed allettandolo, amministrano
come cosa dolce il veleno; e mentre son prodotte più cose che piaceno al gusto,
che quelle che giovano al stomaco, vegnono a noiar alla sanità e vita, mentre
sono intenti a compiacere alla gola. Tutti magnificano l'età de l'oro, e poi
stimano e predicano per virtù quella manigolda che la estinse, quella ch'ha
trovato il mio ed il tuo: quella ch'ha divisa e fatta propria a costui e colui
non solo la terra (la quale è data a tutti gli animanti suoi), ma, ed oltre, il
mare, e forse l'aria ancora. Quella, ch'ha messa la legge a gli altrui diletti,
ed ha fatto che quel tanto che era bastante a tutti, vegna ad essere soverchio a
questi e meno a quell'altri; onde questi, a suo mal grado, crapulano, quelli
altri si muoiono di fame. Quella ch'ha varcati gli mari, per violare quelle
leggi della natura, confondendo que' popoli che la benigna madre distinse, e per
propagare i vizii d'una generazione in un'altra; perché non son cossì
propagabili le virtudi, eccetto se vogliamo chiamar virtudi e bontadi quelle che
per certo inganno e consuetudine son cossì nomate e credute, benché gli
effetti e frutti sieno condannati da ogni senso e ogni natural raggione. Quai
sono le aperte ribaldarie e stoltizie e malignitadi di leggi usurpative e
proprietarie del mio e tuo; e del più giusto, che fu più forte possessore; e
di quel più degno, che è stato più sollecito e più industrioso e primiero
occupatore di que' doni e membri de la terra, che la natura e, per conseguenza,
Dio indifferentemente donano a tutti.
6 Io forse sarò men faurita che costei? Io,
che col mio dolce che esce dalla bocca della voce de la natura, ho insegnato di
viver quieto, tranquillo e contento di questa vita presente e certa, e di
prendere con grato affetto e mano il dolce che la natura porge, e non come
ingrati ed irreconoscenti neghiamo ciò che essa ne dona e detta, perché il
medesimo ne dona e comanda Dio, autor di quella a cui medesimamente verremo ad
essere ingrati. Sarà, dico, più favorita costei, che, sì rubella e sorda a
gli consegli, e ritrosa e schiva contra gli doni naturali, adatta li suoi
pensieri e mani ad artificiose imprese e machinazioni, per quali è corrotto il
mondo e pervertita la legge de la nostra madre? Non udite come a questi tempi,
tardi accorgendosi il mondo di suoi mali, piange quel secolo, nel quale col mio
governo mantenevo gaio e contento il geno umano, e con alte voci e lamenti
abomina il secolo presente, in cui la Sollecitudine ed industriosa Fatica,
conturbando, si dice moderar il tutto con il sprone dell'ambizioso Onore?
O bella età de l'oro
Non già perché di latte
Se 'n corse il fiume e stillò mèle il bosco;
Non perché i frutti loro
Diêr da l'aratro intatte
Le terre, e gli angui errar senz'ira e tòsco;
Non perché nuvol fosco
Non spiegò allor suo velo,
E 'n primavera eterna,
Ch'ora s'accende e verna,
Rise di luce e di sereno il cielo,
Né portò peregrino
O guerra o merce a l'altrui lidi il pino:
Ma sol perché quel vano
Nome senza soggetto,
Quel idolo d'errori, idol d'inganno,
Quel che dal volgo insano
Onor poscia fu detto
Che di nostra natura il feo tiranno,
Non meschiava il suo affanno
Fra le liete dolcezze
De l'amoroso gregge;
Né fu sua dura legge
Nota a quell'alme in libertade avezze,
Ma legge aurea e felice,
Che Natura scolpì: S'ei piace, ei lice.
7 Questa, invidiosa alla quiete e beatitudine,
o pur ombra di piacere che in questo nostro essere possiamo prenderci, avendo
posta legge al coito, al cibo, al dormire, onde non solamente meno delettar ne
possiamo, ma per il più sovente dolere e tormentarci; fa che sia furto quel che
è dono di natura, e vuol che si spregge il bello, il dolce, il buono; e del
male amaro e rio facciamo stima. Questa seduce il mondo a lasciar il certo e
presente bene che quello tiene, ed occuparsi e mettersi in ogni strazio per
l'ombra di futura gloria. Io di quel che con tanti specchi, quante son stelle in
cielo, la verità dimostra, e quel che con tante voci e lingue, quanti son belli
oggetti, la natura di fuore intona, vegno da tutti lati de l'interno edificio
ad.esortarlo:
Lasciate l'ombre ed abbracciate il vero.
Non cangiate il presente col futuro.
Voi siete il veltro che nel rio trabocca,
Mentre l'ombra desia di quel ch'ha in bocca.
Aviso non fu mai di saggio o scaltro
Perder un ben per acquistarne un altro.
A che cercate sì lungi diviso
Se in voi stessi trovate il paradiso?
Anzi, chi perde l'un mentre è nel mondo
Non speri dopo morte l'altro bene.
Perché si sdegna il ciel dar il secondo
A chi il primero don caro non tene;
Cossì credendo alzarvi, gite al fondo;
Ed ai piacer togliendovi, a le pene
Vi condannate; e con inganno eterno,
Bramando il ciel, vi state ne l'inferno.
-8 Qua rispose Momo, dicendo che il conseglio
non aveva tanto ocio, che potesse rispondere a una per ciascuna de le raggioni
che l'Ocio, per non aver avuta penuria d'ocio, ha possute intessere ed ordinare.
Ma che per il presente si servisse de l'esser suo, con andar ad aspettar per tre
o quattro giorni; perché potrà essere che, per trovarsi gli dei in ocio,
potessero determinar qualche cosa in suo favore; il che adesso è impossibile.
Soggionse l'Ocio: -Siami lecito, o Momo, di apportar un altro paio di raggioni,
in non più termini che in forma di un paio di sillogismi, più in materia
efficaci che in forma. De quali il primo è questo: al primo padre de gli
uomini, quando era buon omo, ed a la prima madre de le femine, quando era buona
femina, Giove gli concese me per compagno; ma, quando devenne questa trista e
quello tristo, ordinò Giove che se gli aventasse quella per compagna, a fin che
facesse a costei sudar il ventre ed a colui doler la fronte.
9 \ SAUL.\ Dovea dire: sudar a colui la fronte,
e doler a colei il ventre.
10 \ SOFIA\ - Or considerate, dei, disse, la
conclusione che pende da quel che io fui dechiarato compagno de l'Innocenza, e
costei compagna del peccato. Atteso che, se il simile s'accompagna col simile,
il degno col condegno, io vegno ad esser virtude e colei vizio, e per tanto io
degno e lei indegna di tal sedia. Il secondo sillogismo è questo: Li dei son
dei, perché son felicissimi; li felici son felici, perché son senza
sollecitudine e fatica: fatica e sollecitudine non han color che non si muoveno
ed alterano; questi son massime quei ch'han seco l'Ocio; dunque gli dei son dei,
perché han seco l'Ocio.
-11 \ SAUL.\ Che disse Momo a questo?
12 \ SOFIA\ Disse che, per aver studiato logica
in Aristotele, non aveva imparato di rispondere a gli argumenti in quarta
figura.
13 \ SAUL.\ E Giove che disse?
14 \ SOFIA\ Che di tutto, che lei avea detto e
lui udito, non si ricordava altro che l'ultima raggione circa l'essere stato
compagno del buono uomo e femina; intorno alla quale gli occorreva, che gli
cavali non pertanto son asini, perché si trovano in compagnia di quelli, né
giamai la pecora è capra tra le capre. E soggionse che gli dei aveano donato a
l'uomo l'intelletto e le mani, e l'aveano fatto simile a loro, donandogli
facultà sopra gli altri animali; la qual consiste non solo in poter operar
secondo la natura ed ordinario, ma, ed oltre, fuor le leggi di quella; acciò,
formando o possendo formar altre nature, altri corsi, altri ordini con
l'ingegno, con quella libertade, senza la quale non arrebe detta similitudine,
venesse ad serbarsi dio de la terra. Quella certo, quando verrà ad essere
ociosa, sarà frustratoria e vana, come indarno è l'occhio che non vede, e mano
che non apprende. E per questo ha determinato la providenza, che vegna occupato
ne l'azione per le mani, e contemplazione per l'intelletto; de maniera che non
contemple senza azione, e non opre senza contemplazione. Ne l'età dunque de
l'oro per l'Ocio gli uomini non erano più virtuosi che sin al presente le
bestie son virtuose, e forse erano più stupidi che molte di queste. Or essendo
tra essi per l'emulazione d'atti divini ed adattazione di spirituosi affetti
nate le difficultadi, risorte le necessitadi, sono acuiti gl'ingegni, inventate
le industrie, scoperte le arti; e sempre di giorno in giorno, per mezzo de
l'egestade, dalla profundità de l'intelletto umano si eccitano nove e
maravigliose invenzioni. Onde sempre più e più per le sollecite ed urgenti
occupazioni allontanandosi dall'esser bestiale, più altamente s'approssimano a
l'esser divino. De le ingiustizie e malizie che crescono insieme con le
industrie, non ti devi maravigliare; perché, se gli bovi e scimie avessero
tanta virtù ed ingegno, quanto gli uomini, arrebono le medesime apprensioni,
gli medesimi affetti e gli medesimi vizii. Cossì tra gli uomini quei ch'hanno
del porco, de l'asino e del bue, son certo men tristi, e non sono infetti di
tanti criminosi vizii; ma non per ciò sono più virtuosi, eccetto in quel modo
con cui le bestie, per non esser partecipi di altretanti vizii, vegnono ad esser
più virtuose de loro. Ma noi non lodiamo la virtù de la continenza nella
scrofa, la quale si lascia chiavare da un sol porco ed una volta l'anno; ma in
una donna la quale non solo è sollecitata una volta dalla natura per il bisogno
de la generazione, ma ed ancora dal proprio discorso più volte per
l'apprensione del piacere, e per esser ella ancor fine degli suoi atti. Oltre di
ciò non troppo, ma molto poco lodiamo di continenza una femina o un maschio
porcino, il quale per stupidità e durezza di complessione avien che di rado e
con poco senso vegna sollecitato da la libidine, come quell'altro che per esser
freddo e maleficiato, e quell'altro per esser decrepito; altrimente deve esser
considerata la continenza, la quale è veramente continenza e veramente virtù
in una complessione più gentile, più ben nodrita, più ingegnosa, più
perspicace e maggiormente apprensiva. Però per la generalità de regioni a gran
pena è virtù ne la Germania, assai è virtù ne la Francia, più è virtù ne
l'Italia, di vantaggio è virtù nella Libia. Là onde, se più profondamente
consideri, tanto manca che Socrate revelasse qualche suo difetto, che più tosto
venne a lodarsi tanto maggiormente di continenza, quando approvò il giudicio
del fisionomista circa la sua natural inclinazione al sporco amor di gargioni.
Se dunque, Ocio, consideri quello che si deve considerar da questo, trovarai che
non per tanto nella tua aurea etade gli uomini erano virtuosi, perché non erano
cossì viziosi, come al presente; atteso che è differenza molta tra il non
esser vizioso e l'esser virtuoso; e non cossì facilmente l'uno si tira da
l'altro, considerando che non sono medesime virtudi dove non son medesimi studi,
medesimi ingegni, inclinazioni e complessioni. Però, per comparazione da pazzi
ed ingegni cavallini, aviene che gli barbari e salvatici si tegnon megliori che
noi altri dei, per non esser notati di que' vizii medesimi; per ciò che le
bestie, le quali son molto meno in tai vizii notabili che essi, saranno per
questo molto più buone che loro. A voi dunque, Ocio e Sonno, con la vostra
aurea etade converrà bene che non siate vizii qualche volta ed in qualche
maniera; ma giamai ed in nessun modo che siate virtudi. Quando dunque tu, Sonno,
non sarai Sonno, e tu, Ozio, sarai Negocio, allora sarete connumerati tra
virtudi ed essaltati. - Qua il Sonno si fece un passetto avanti, e si fricò
alquanto gli occhi per dire ancora lui qualche cosetta ed apportar qualche
picciolo proposito avanti il Senato, per non parer d'esservi venuto in vano.
Quando Momo il vedde cossì suavemente rimenarsi pian pianino, rapito dalla
grazia e vaghezza de la dea Oscitazione, che, come aurora avanti il sole,
precedeva avanti a lui, in punto di voler far ella il prologo; e non osando di
scuoprir il suo amor in conspetto de gli dei, per non essergli lecito di
accarezzar la fante, fece carezze al signore in questa foggia (dopo aver gittato
un caldetto suspiro), parlando per lettera, per fargli più riverenza ed onore:
Somne, quies rerum, placidissime somne deorum,
Pax animi, quem cura fugit, qui corpora duris
Fessa ministeriis mulces reparasque labori.
-15 Non sì tosto ebbe cominciata questa
cantilena il dio de le riprensioni (il quale per la già detta caggione s'era
dismenticato de l'ufficio suo), che il Sonno, invaghito per il proposito di
tante lodi e demulcto dal tono di quella voce, invita a l'udienza il Sopore che
gli alloggiava ne gli precordii. Il quale, dopo aver fatto cenno alle fumositadi
che faceano residenza nel stomaco, gli montorno tutti insieme sul cervello, e
cossì vennero ad aggravarli la testa, e con questo vennero a discioperarsi gli
sensi. Or mentre il Ronfo sonavagli li scifoli e tromboni innante, andò
trepidando trepidando a curvarsi e dar il capo in seno di madonna Giunone; e da
quel chino avenne (perché questo dio va sempre in camicia e senza braghe) che,
per essere la camicia troppo corta, mostrò le natiche, il coliseo e la punta
del campanile a Momo e tutti gli altri dei ch'erano da quella parte. Or, con
questa occasione, ecco venuto in campo il Riso, con presentar a gli occhi del
Senato la prospettiva di tanti ossetti, che tutti eran denti; e facendosi udire
con la dissonante musica di tanti cachinni, interruppe il filo de l'orazione a
Momo. Il qual, non possendosi risentir contra costui, tutto il sdegno suo
converse contra il Sonno che l'avea provocato, con non premiarlo al meno di
buona attenzione, e di sopragionta con andar ad offrirgli con tanta sollennitade
il purgatorio, con la pera e baculo di Giacobbe, come per maggior dispreggio del
suo adulatorio ed amatorio dicendi genus. Là onde ben si accorgeva che
gli dei non tanto ridevano per la condizion del Sonno, quanto per il strano caso
intervenuto a lui, e perché il Sonno era giocatore ed egli era suggetto di
questa comedia; e con ciò avendogli la Vergogna d'un velo sanguigno ricoperto
il volto: - A chi tocca, disse, di levarci dinanzi questo ghiro? chi fa che sì
a lungo questo ludibrioso specchio ne si presente a gli occhi? - In tanto la dea
Poltronaria, commossa da la rabbiosa querela di Momo (dio de' non più volgari
ch'abbia il cielo), se mise il suo marito in braccio; e presto, avendolo indi
tolto, lo menò verso la cavità d'un monte vicino a gli Cimmerii; e con questi
si partiro li suoi tre figli Morfeo, Icilone e Fantaso; che tutti tosto si
ritrovorno là dove da la terra perpetue nebbie exalano, caggionando eterno
crepuscolo a l'aria: dove vento non soffia, e la muta Quiete tiene un suo
palaggio ancora vicino a la regia del Sonno; avanti il cui atrio è un giardino
di tassi, faghi, cipressi, bussi e lauri; nel cui mezzo è una fontana, che
deriva da un picciol rio, che dal rapido varco del fiume leteo, divertendo dal
tenebroso inferno alla superficie de la terra, ivi viene a discuoprirsi al cielo
aperto. Qua il dormiglioso dio rimesero nel suo letto, di cui d'ebano le tavole,
di piume i strami ed il padiglion di seta di color pardiglio.
16 In questo mentre, presa avendo licenza il
Riso, se partì dal conclave; ed essendo rimesse al suo sesto le bocche e
ganasse de gli dei, che poco mancò che non venesse smascellato alcuno di essi,
l'Ocio, il qual solo ivi era rimaso, vedendo il giudicio de' dei non troppo
inchinato al suo favore, e desperando di profittar oltre in qualche maniera, se
le sue quasi tutte e più principali raggioni non erano accettate, ma, tante
quante fûro, di rovescio erano state ributtate a terra, dove per forza de la
repulsa altre erano mal vive, altre erano crepate, altre aveano il collo rotto,
altre in tutto erano andate in pezzi e fracasso: stimava ogni momento un anno,
per pigliar occasione di tôrsi de là di mezzo, prima che forse gli potesse
intravenire qualche vituperosa disgrazia simile a quella del suo compagno, per
rispetto del quale dubitava che Momo non gli aggravasse le censure contra. Ma
quello, scorgendo il spavento, che costui aveva di fatti non suoi: - Non
dubitar, povera persona, gli disse; perché io, instituito dal fato advocato de
poveri, non voglio mancar di far la causa tua. -E voltato a Giove, gli disse: -
Per il tuo dire, o Padre, intorno alla causa de l'Ocio, comprendo che non sei a
pieno informato de l'esser suo, della sua stanza e de gli suoi ministri e corte;
la qual certamente se verrai a conoscere, facilmente mi persuado che, se non
come Ocio lo vuoi incatedrare nelle stelle, almeno come Negocio lo farai
alloggiare insieme con quell'altro, detto e stimato suo nemico; con il qual,
senza farsi male l'un l'altro, potrà far perpetuo soggiorno. - Rispose Giove,
che lui desiderava occasione di poter giustamente contentar l'Ocio, de le cui
carezze non è mortale né dio che non soglia sovente delettarsi; però che
volentieri l'ascoltarebbe, se gli facesse intendere qualche nervosa causa in suo
favore. - Ti par, Giove, disse, che in casa de l'Ocio sia ocio, quanto a la vita
attiva, là dove son tanti gentiluomini di compagnia e servitori che si alzano
ben per tempo la mattina, per lavarsi tre e quatro volte con cinque o sette
sorte d'acqua il volto e le mani, e che col ferro caldo e con l'impeciatura di
felce spendeno due ore ad incresparsi e ricciarsi la chioma, imitando la alta e
grande providenza, da cui non è capello di testa che non viene ad essere
esaminato, acciò di quello secondo la sua raggione vegna disposto? Dove
appresso con tanta diligenza si rassetta il giuppone, con tanta sagacità si
ordinano le piegature del collaio, con tanta moderanza s'affibiano gli bottoni,
con tanta gentilezza s'accomodano gli polsi, con tanta delicatura si purgano e
si contemprano le unghie, con tanta giustizia, moderanza ed equità s'accopulano
le braghe col giubbone, con tanta circonspezione si disponeno que' nodi de le
stringhe; con tanta sedulità si menano e rimenano le cave palme, per far andar
a sesto la calzetta; con tanta simmetria vanno a proporzionarsi gli termini e
confini dove l'orificii de cannoni de le braghe s'uniscono a le calzette in
circa la piegatura de le ginocchia, con tanta pazienza si comportano gli
artissimi legami o garrettiere, perché non diffluiscano le calzette a far le
pieghe e confondere la proporzione di quelle con le gambe; dove col polso della
difficultade dispensa e decerne il giudicio, che, non essendo leggiadro e
convenevole che la scarpa s'accommode al piede, vegna il piede largo, distorto,
nodoso e rozzo, al suo marcio dispetto, ad accomodarsi con la scarpa stretta,
dritta, tersa e gentile? Dove con tanta leggiadria si muoveno gli passi, si
discorre, per farsi contemplare, la cittade, si visitano ed intertegnono le
dame, si balla, si fa de capriole, di correnti, di branli, di tresche; e quando
altro non è che fare, per essersi stancato ne le dette operazioni, ad evitar
l'inconveniente di commettere errori, si siede a giocare di giuochi da tavola,
ritrandosi da gli altri più forti e faticosi: ed in tal maniera s'evitano tutti
li peccati, se quelli non son più che sette mortali e capitali, perché, come
disse un Genoese giocatore: - Che Superbia vuoi tu ch'abbia un uomo il quale,
avendo perduti cento scudi con un conte, si mette a giocar per vencere quattro
reali ad un famiglio? Che Avarizia può aver colui a cui mille scudi non durano
otto giorni? Che Lussuria ed Amor cupidinesco può trovarsi in quello il quale
ha messa tutta l'attenzion del spirto al giocare? Come potrai arguire d'Ira
colui, che per tema ch'il compagno non si parta dal giuoco comporta mille
ingiurie, e con gentilezza e pazienza risponde ad un orgoglioso che gli è
avanti? Per qual modo può esser goloso chi mette ogni dispendio e applica ogni
sollecitudine a l'esercizio suo? Che Invidia può essere in costui per quel
ch'altri possieda, se getta via e par che spreggie il suo? Che Accidia può
essere in quello che cominciando da mezo giorno, e tal volta da la mattina,
insino a meza notte, mai cessa di giuocare? E vi par che faccia in questo mentre
star in ocio gli servitori, e quelli che gli denno assistere, e quelli che gli
denno administrare? al tempio, al mercato, a la cantina, a la cocina, a la
stalla, al letto, al bordello? E per farvi vedere, o Giove, e voi altri dei, che
in casa de l'Ozio non mancano de persone dotte e literate, occupate a studii,
oltre quelle occupate a' negocii, de' quali abbiamo detto: pare a voi, che in
casa de l'Ocio si stia in ocio quanto a la vita contemplativa, dove non mancano
grammatici che disputano di chi è stato prima, il nome o il verbo? Perché
l'adiettivo accade che si pona avanti ed appresso al sustantivo? Onde ne la
dizione alcuna copula, quale, verbigrazia, et, si pone innanzi ed
alcun'altra, quale per essempio, que, si pone a dietro? Come lo e e
d con la giunta de temone e scissione del d per il mezzo, viene a
far comodamente il ritratto di quel nume di Lampsaco, che per invidia commise
l'asinicidio? Chi l'autore a cui legitimamente deve referirsi il libro della
Priapea, il Maron mantuano, o pur il sulmonese Nasone? Lascio tanti altri bei
propositi simili, e più gentili che questi.
17 Dove non mancano dialettici che inquireno se
Crisaorio, che fu discepolo di Porfirio, avea bocca d'oro per natura, o per
riputazione, o solamente per nomenclatura; se la Periermenia deve passar avanti,
o venir appresso, o pur, ad libitum, mettersi innanzi ed a dietro de le
Categorie; se l'individuo vago deve esser messo in numero e posto in mezzo, come
un sesto predicabile, o pur essere come scudiero de la specie e caudatario del
geno; se, dopo esser periti in forma sillogistica, doviamo per la prima
applicarne al studio della Posteriore, dove si complisce l'arte giudicativa, o
ver subito dar su la Topica, per cui si mette la perfezion de l'arte inventiva;
se bisogna pratticar le captiuncule ad usum vel ad fugam vel in abusum:
se gli modi, che formano le modali, son quattro, o quaranta, o quattrocento; non
voglio dire mille altre belle questioni.
18 Dove son gli fisici che dubitano se de le
cose naturali può essere scienza; se lo suggetto è ente mobile o corpo mobile,
o ente naturale o corpo naturale; se la materia ave altro atto che entitativo;
dove consiste la linea de la coincidenza del fisico e matematico; se la
creazione e produzione de niente è o non; se la materia può essere senza la
forma; se più forme sustanziali possono essere insieme; ed altri innumerabili
simili quesiti circa cose manifestissime, se non con disutile investigazioni son
messe in questione. Dove gli metafisici si rompeno la testa circa il principio
dell'individuazione; circa il suggetto ente, in quanto ente; circa il provar che
gli numeri aritmetrici e magnitudini geometriche non son sustanza de le cose;
circa le idee, se è vero ch'abbiano l'essere subsistenziale da per esse; circa
l'essere medesimo o diverso subiettivamente ed obbiettivamente; circa l'essere
ed essenzia; circa gli accidenti medesimi in numero in uno o più suggetti;
circa l'equivocazione, univocazione ed analogia de lo ente; circa la coniunzione
de le intelligenze a li orbi stelliferi, se la è per modo di anima o pur per
modo di movente; se la virtù infinita possa essere in grandezza finita; circa
la unità o pluralità de primi motori; circa la scala del progresso finito o
infinito in cause subordinate; e circa tante e tante cose simili, che fanno
freneticar tante cuculle, fanno lambiccar il succhio de la nuca a tanti
protosofossi.
-19 Qua disse Giove: - O Momo, mi par che
l'Ocio t'abbia guadagnato o subornato, che cossì ociosamente spendi il tempo ed
il proposito. Conchiudi, perché è ben definito appresso di noi di quel che
doviamo far di costui. - Lascio dunque, soggionse Momo, de referir tanti altri
negociosi innumerabili che sono occupati in casa di questo dio: come è dir
tanti vani versificatori ch'al dispetto del mondo si vogliono passar per poeti,
tanti scrittori di fabole, tanti nuovi rapportatori d'istorie vecchie, mille
volte da mille altri a mille doppia megliormente referite. Lascio gli
algebristi, quadratori di circoli, figuristi, metodici, riformatori de
dialettiche, instauratori d'ortografie, contemplatori de la vita e de la morte,
veri postiglioni del paradiso, novi condottier di vita eterna novamente corretta
e ristampata con molte utilissime addizioni, buoni nuncii di meglior pane, di
meglior carne e vino, che non possa esser il greco di Somma, malvagia di Candia
e asprinio di Nola. Lascio le belle speculazioni circa il fato e l'elezione,
circa l'ubiquibilità d'un corpo, circa la eccellenza di giusticia che si
ritrova ne le sanguisughe. - Qua disse Minerva: - Se non chiudi la bocca a
questo ciancione, o padre, spenderemo in vani discorsi il tempo, e per il giorno
d'oggi non sarà possibile di espedire il nostro principal negocio. - Però
disse il padre Giove a Momo: - Non ho tempo di raggionar circa le tue ironie.
Ma, per venire alla tua ispedicione, Ocio, ti dico, che quello che è lodevole e
studioso Ocio, deve sedere e siede nella medesima catedra con la Sollecitudine,
per ciò che la fatica deve maneggiarsi per l'ocio, e l'ocio deve contemperarsi
per la fatica. Per beneficio di quello questa fia più raggionevole, più
ispedita e pronta, perché difficilmente dalla fatica si procede a la fatica. E
sì come le azioni senza premeditazione e considerazione non son buone, cossì
senza l'ocio premeditante non vagliono. Parimente non può essere suave e grato
il progresso da l'ocio a l'ocio, percioché questo giamai è dolce se non quando
esce dal seno della fatica. Or fia dunque giamai, che tu Ocio, possi esser grato
veramente, se non quando succedi a degne occupazioni. L'ocio vile ed inerte
voglio che ad un animo generoso sia la maggior fatica che aver egli possa, se
non se gli rapresenta dopo lodabile esercizio e lavoro. Voglio che ti aventi
come signore alla Senettute, ed a colei farai spesso ritorcer gli occhi a
dietro; e se la non ha lasciati degni vestigii, la renderai molesta, triste,
suspetta del prossimo giudicio dell'impendente staggione che l'amena a
l'inexorabile tribunal di Radamanto, e cossì vegna a sentir gli orrori della
morte prima che la vegna.
20 \ SAUL.\ Ben disse a questo proposito il
Tansillo:
Credete a chi può farven giuramento,
Che stato tristo non ha il mondo ch'aggia
Pena che vada a par del pentimento;
Poi ch'il passato non è chi riaggia.
E benché ogni pentir porti tormento,
Quel che più ne combatte e più ne oltraggia
E piaghe stampa che curar non lece,
È quand'uom poteo molto, e nulla fece.
21 \ SOFIA\ - Non meno, disse Giove; anzi più
voglio che sia triste il successo dell'inutili negocii, de li quali alcuni ha
recitati Momo che si trovano nella stanza de l'Ocio; e voglio che s'impiomba
l'ira de' dei contra que' negociosi ocii ch'hanno messo il mondo in maggior
molestie e travagli che mai avesse possuto mettere negocio alcuno. Que', dico,
che vogliono convertere tutta la nobiltà e perfezione della vita umana in sole
ociose credenze e fantasie, mentre talmente lodano le sollecitudini ed opre di
giustizia, che per quelle dicano l'uomo non rendersi (benché si manifeste)
megliore; e talmente vituperano gli vizii e desidie, che per quelli dicano gli
uomini non farsi meno grati a que' dei a' quali erano grati, con tutto che ciò,
e peggio, esser dovea. Tu, Ocio inerte, disutile e pernicioso, non aspettar che
della tua stanza si dispona in cielo e per gli celesti dei; ma nell'inferno per
gli ministri del rigoroso ed implacabile Plutone.
-22 Or non voglio riferire quanto ociosamente
si portava l'Ocio nel caminarsene via, e con quante spuntonate incitato a pena
si sapea muovere, se non che constretto dalla dea Necessitade, che gli dié de'
calci, se rimosse da là, lamentandosi del conseglio, che non gli avea voluto
concedere alcuni giorni di tempo e di termine, per partirsi dalla loro
conversazione.
-2 Propose appresso Momo a Mercurio quel che
volesse fare del Serpentauro, perché gli parea buono ed accomodato per inviarlo
a far il Marso chiarlatano, avendo quella grazia di maneggiar senza timore e
periglio un tale e tanto serpente. Propose anco del serpente al radiante
Apolline, se lo volea per cosa da servire a' suoi maghi e malefici, come è dire
alle sue Circe e Medee per esecutar gli veneficii; o ver lo volea concedere a'
suoi medici, come è dire ad Esculapio per farne tiriaca. Propose oltre a
Minerva, se quest'uno gli avesse possuto servire per inviarlo a far vendetta di
qualche risorto nemico Laocoonte. - Prendalo chi lo vuole, disse il gran
Patriarca; e facciane quel che si voglia, tanto del serpe, quanto de l'Ofiulco,
pur che si tolgano da là; ed in suo luogo succeda la Sagacità, la qual suole
vedersi ed admirarsi nel Serpente. - Succeda dunque la Sagacitade, dissero
tutti, atteso che non è men degna del cielo che la sua sorella Prudenza;
perché dove quella sa comandare e mettere in ordine quel che s'è da fare e
lasciare per venire a qualche dissegno, questa sappia prima e poi giudicare per
forza di buona intelligenza, che la è; e discaccia la Grossezza,
Inconsiderazione ed Ebetudine da le piazze, dove le cose si metteno in dubio o
in consultazione. Dalli vasi della sapienza imbeva il sapere, onde concepa e
parturisca atti di Prudenza.
-3 - Della Saetta, disse Momo, perché io mai
fui curioso di saper a chi appartenesse, cioè, se fusse quella con cui Apolline
uccise il gran Pitone, o pur quella per cui madonna Venere fece al suo
poltroncello impiagar il feroce Marte, che per vendetta poi a quella cruda
ficcò un pugnal sotto la pancia in sino a l'elsa; o pur una memorabile con la
qual Alcide dismese la Regina de le Stimfalidi; o l'altra per cui l'apro
Calidonio dié l'ultimo crollo; o ver sia reliquia o trofeo di qualche trionfo
di Diana la castissima. Sia che si vuole, riprendesila il suo padrone, e se la
ficche là dove gli piace.
-4 - Bene, rispose Giove, tolgasi da là
insieme con la Insidia, la Calumnia, la Detrazione, atto de Invidia, e la
Maldicenza; ed ivi succeda la buona Attenzione, Observanza, Elezione e
Collimazion di regolato intento. E soggionse: De l'Aquila, ucello divino ed
eroico e tipo de l'Imperio, io determino e voglio cossì, che vada a ritrovarsi
in carne ed in ossa nella bibace Alemagna: dove più che in altra parte si
trovarà celebrata in forma, in figura, in imagine ed in similitudine, in tante
pitture, in tante statue, in tante celature, quanto nel cielo stelle si possono
presentar a gli occhi de la Germania contemplativa. La Ambizione, la
Presunzione, la Temeritade, la Oppressione, la Tirannia ed altre compagne e
ministre di queste dee non bisogna che le mene seco là dove li bisognarebbe a
tutte star in ocio; percioché la campagna non è troppo larga per esse; ma
prendano il suo volo lungi da quel diletto almo paese, dove gli scudi son le
scudelle, le celate son le pignatte e lavezzi, gli brandi son l'ossa inguainate
in carne salata, le trombe son gli becchieri, urcioli e gli bocali, gli tamburi
son gli barilli e botte, il campo è la tavola da bere, volsi dir da mangiare;
le forterezze, gli baloardi, gli castegli, li bastioni son le cantine, le
popine, le ostarie, che son di più gran numero che le stanze medesime. - Qua
Momo disse: - Perdonami, gran padre, s'io t'interrompo il parlare. A me pare che
queste dee compagne e ministre, senza che vi le mandi, vi si trovano; perché
l'Ambizione circa l'essere superiore a tutti in farsi porco; la Presunzione del
ventre, che pretende di ricevere non meno di alto che da alto vaglia mandar a
basso il gorgazuolo; la Temeritade, con cui vanamente il stomaco tenta digerire
quel che or ora, presto presto è necessario di vomire; la Oppressione de sensi
e natural calore; la Tirannia della vita vegetativa, sensitiva ed intellettiva
regnano più in questa sola che in tutte l'altre parti di questo globo. - È
vero, o Momo, soggionse Mercurio; ma tali Tirannie, Temeritadi, Ambizioni ed
altre simili cacodee, con le loro cacodemonesse, non son punto aquiline, ma da
sanguisughe, pacchioni, sturni e ciacchi. Appresso, per venire al proposito
della sentenza di Giove, la mi par molto pregiudiziosa alla condizione, vita e
natura di questo regio ucello; il quale, perché poco beve e molto mangia e
vora, perché ha gli occhi tersi e netti, perché è veloce nel corso, perché e
con la levità de l'ali sue sopravola al cielo ed è abitante di luoghi secchi,
sassosi, alti e forti, non può aver simbolo ed accordo con generazion
campestre; ed a cui la doppia soma degli bragoni par che a forte contrapeso le
impiomba verso il profondo e tenebroso centro; e che si fa gente sì tarda e
greve, non tanto inetta a perseguitare e fuggire, quanto buona a tener fermo ne
le guerre; e che per la gran parte è soggetta al mal degli occhi, e che
incomparabilmente più beve che mangia. - Quel che ho detto, è detto, rispose
Giove. Dissi, che vi si presente in carne ed in ossa per veder gli suoi
ritratti; ma non già, che vi stia come in prigione, o che manca di trovarsi
là, dovunque è in spirito e veritade con altre e più degne raggioni con gli
già detti numi: e questa sedia gloriosa lancie a tutte quelle virtudi, de le
quali può esser stata vicaria: come è dire, a la dea Magnanimità,
Magnificenza, Generosità ed altre sorelle e ministre di costoro.
-5 - Or che faremo, disse Nettuno, di quel
Delfino? Piacevi ch'io lo metta nel mar di Marseglia, onde per il Rodano fiume
vada e rivegna a volte a volte, visitando e rivisitando il Delfinato? - Cossì
si faccia presto, disse Momo; perché, a dire il vero, non mi par cosa meno da
ridere, se alcuno
Delphinum caelis appinxit, fluctibus aprum,
che se
Delphinum sylvis appinxit, fluctibus aprum.
6 - Vada, dove piace a Nettuno, disse Giove; ed
in suo luogo succeda la figurata Dilezione, Affabilità, Officio con gli suoi
compagni e ministri. - Dimandò Minerva che il cavallo Pegaseo, lasciando le
vinti lucide macchie e la Curiositade, se ne vada al fonte caballino già per
molto tempo confuso, destrutto ed inturbidato da bovi, porci ed asini; e veda,
se con gli calci e denti possa far tanto che vendiche quel loco da sì villano
concorso: a fin che le Muse, veggendo l'acqua del fonte posta in buono ordine e
rassettata, non si sdegnino di ritornarvi, e farvi gli lor collegii e
promozioni. Ed in questo luogo del cielo succeda il Furor divino, il Rapto,
l'Entusiasmo, il Vaticinio, il Studio ed Ingegno con gli lor cognati e ministri,
onde eternamente da su l'acqua divina, per lavar gli animi ed abbeverar gli
affetti, stille a gli mortali. - Tolgasi, disse Nettuno, questa Andromeda, se
cossì piace a voi dei; la quale per la mano de l'Ignoranza è stata avinta al
scoglio dell'Ostinazione con la catena di perverse raggioni e false opinioni,
per farla traghiuttir dal ceto della perdizione e final ruina, che per
l'instabile e tempestoso mare va discorrendo; e sia commessa alle provide ed
amiche mani del sollecito, laborioso ed accorto Perseo, ch'avendola indi
disciolta e tolta, dall'indegna cattività la promova al proprio degno acquisto.
E di quel che deve succedere al suo loco tra le stelle dispona Giove. - Là,
rispose il padre de gli dei, voglio che succeda la Speranza, quella che, co'
l'aspettar frutto degno delle sue opre e fatiche, non è cosa tanto ardua e
difficile a cui non accenda gli animi tutti, i quali aver possono senso di
qualche fine. - Succeda, rispose Pallade, quel santissimo scudo del petto umano,
quel divino fundamento de tutti gli edificii di bontade, quel sicurissimo riparo
della Veritade; quella che per strano accidente qualsivoglia mai si diffida,
perché sente in sé stessa gli semi della propria sufficienza, li quali da
quantunque violento polso non gli possono essere defraudati; quella in virtù
della quale è fama che Stilbone vencesse la vittoria de' nemici; quel Stilbone,
dico, il quale scampato da le fiamme che gl'incinerivano la patria, la casa, la
moglie, i figli e le facultadi, a Demetrio rispose aver tutte le cose sue seco,
perché seco avea quella Fortezza, quella Giustizia, quella Prudenza, per quali
meglio possea sperar consolazione, scampo e sustegno di sua vita; e per le quali
facilmente il dolce di questa sprezzarebbe. - Lasciamo questi colori, disse
Momo, e vengasi presto a veder quello che si de' fare di quel Triangolo o Delta.
- Rispose la astifera Pallade: - Mi par degno che sia messo in mano del Cardinal
di Cusa, a fin che colui veda, se con questo possa liberar gli impacciati
geometri da quella fastidiosa inquisizione della quadratura del circolo,
regolando il circolo ed il triangolo con quel suo divino principio della
commensurazione e coincidenza de la massima e minima figura: cioè di quella che
costa di minimo, e de l'altra che costa di massimo numero degli angoli. Portisi
dunque questo trigono con un circolo ch'il comprende, e con un altro che da lui
sia compreso; e con la relazione di queste due linee (de quali l'una dal centro
va al punto della contingenzia del circolo interno con il triangolo esterno;
l'altra dal medesimo centro si tende a l'uno de gli angoli del triangolo) vegna
a compirsi quella tanto tempo e tanto vanamente cercata quadratura.
-7 Qua risorse Minerva, e disse: - Ma io, per
non parer meno cortese a le Muse, voglio inviar a gli geometri incomparabilmente
maggiore e meglior dono, che questo ed altro che sia sin ora donato; per cui il
Nolano, al quale fia primieramente revelato, e dalla cui mano venga diffuso alla
moltitudine, mi debbia non solamente una, ma cento ecatombi; perché in virtù
della contemplazion de l'equità che si trova tra il massimo e minimo, tra
l'extimo ed intimo, tra il principio e fine, gli porgo una via più feconda,
più ricca, più aperta e più sicura; la quale non solamente dimostre como il
quadrato si fa uguale al circolo, ma, ed oltre, subito, ogni trigono, ogni
pentagono, ogni exagono, e finalmente qualsivoglia e quantosivoglia poligònia
figura; dove non meno fia uguale linea a linea che superficie a superficie,
campo a campo, e corpo a corpo nelle solide figure.
-8 \ SAUL.\ Questa sarà cosa eccellentissima,
ed un tesoro inestimabile per gli cosmimetri.
9 \ SOFIA\ Tanto eccellente e degna, che certo
parmi che contrapese a l'invenzione di tutto il rimanente della geometrica
facultade. Anzi da qua pende un'altra più intiera, più grande, più ricca,
più facile, più esquisita, più breve e niente men certa; la quale
qualsivoglia figura poligònia viene ad comensurare per la linea e superficie
del circolo; ed il circolo per la linea e superficie di qualsivoglia poligonìa.
10 \ SAUL.\ Vorrei quanto prima intendere il
modo.
11 \ SOFIA\ Cossì disse Mercurio a Minerva; a
cui quella rispose: - Prima (nel modo che tu fatto hai) dentro questo triangolo
descrivo un circolo, che massimo discriver vi si possa; appresso fuor di questo
triangolo ne delineo un altro che minimo delinear si possa sin al contatto de
gli tre angoli; e quindi non voglio procedere a quella tua fastidiosa
quadratura, ma al facile trigonismo, cercando un triangolo che abbia la linea
uguale alla linea del circolo, ed un altro che vegna ad ottenere la superficie
uguale alla superficie del circolo. Questo sarà uno circa quel triangolo
mezzano, equidistante da quello che contiene il circolo, e quell'altro ch'è
contenuto dal circolo; il quale lascio, che con il proprio ingegno altri lo
prenda cossì, perché mi basta aver mostrato il luogo de' luoghi. Cossì, per
quadrare il circolo, non fia mestiero di prendere il triangolo, ma il
quatrangolo che è tra il massimo interno e minimo esterno al circolo. Per
pentagonare il circolo, prenderassi il mezzo tra il massimo pentagono contenuto
dal circolo e minimo continente del circolo. Similmente farassi sempre, per far
qualsivoglia altra figura uguale al circolo in campo ed in linea. Cossì oltre,
per essere trovato il circolo del quadrato uguale al circolo del triangolo,
verrà trovato il quadrato di questo circolo pare al triangolo di quell'altro
circolo, di medesma quantità con questo.
12 \ SAUL.\ In questo modo, o Sofia, si possono
far tutte l'altre figure uguali ad altre figure con l'aggiuto e relazione del
circolo, che fate misura de le misure. Cioè, se voglio far un triangolo equale
al quatrangolo, prendo quel mezzano tra gli doi apposti al circolo, con quel
mezzano tra doi quatrangoli apposti al medesimo circolo, o ver ad un altro
uguale. Se voglio prendere un quadrato uguale a l'exagono, delinearò dentro e
fuori del circolo e questo e quello, e prenderò quel mezzano tra gli doi de
l'uno e l'altro.
13 \ SOFIA\ Bene l'hai capito. In tanto che
quindi non solamente s'ha la equatura di tutte le figure al circolo, ma ed oltre
di ciascuna de le figure a tutte l'altre mediante il circolo, serbando sempre
l'equalità secondo la linea e secondo la superficie. Cossì con picciola
considerazione o attenzione ogni equalità e proporzione di qualsivoglia corda a
qualsivogli'arco si potrà prendere, mentre o intiera, o divisa, o con certe
raggioni aumentata viene a constituir poligonìa tale, che in detta maniera da
cotal circolo sia compresa, o lo comprenda.
14 - Or definiscasi presto, disse Giove, di
quel che vogliamo collocarvi. - Rispose Minerva: - Mi par, che vi stia bene la
Fede e Sinceritade, senza la quale ogni contratto è perplesso e dubio, si
dissolve ogni conversazione, ogni convitto si destrugge. Vedete a che è ridutto
il mondo, per esser messo in consuetudine e proverbio, che per regnare non si
osserva fede. Oltre: agl'infideli ed eretici non si osserva fede. Appresso: si
franga la fede a chi la rompe. Or che sarà, se questo si mette in prattica da
tutti? A che verrà il mondo, se tutte le republiche, regni, dominii, fameglie e
particolari diranno, che si deve esser santo col santo, perverso col perverso? e
si faranno iscusati d'esser scelerati, perché hanno il scelerato per compagno o
vicino? e pensaranno che non doviamo forzarci ad esser buoni assolutamente, come
fusseno dei, ma per commoditade ed occasione, come gli serpenti, lupi ed orsi,
tossichi e veneni? - Voglio, soggionse il padre, che la Fede sia tra le virtudi
celebratissima; e questa, se non sarà data con condizione d'un'altra fede, mai
sia lecito di rompersi per la rottura de l'altra, atteso che è legge da qualche
Giudeo e Sarraceno bestiale e barbaro, non da Greco e Romano civile ed eroico,
che alcuna volta e con certe sorte di genti, sol per propria commoditade ed
occasion d'inganno, sia lecito donar la fede, con farla ministra di tirannia e
tradimento.
-15 \ SAUL.\ O Sofia, non è offesa più
infame, scelerosa ed indegna di misericordia, che quella che si fa ad uno per un
altro, per causa che l'uno ha creduto a l'altro; e l'uno vegna offeso da
l'altro, per avergli porgiuta fede, stimandolo uomo da bene.
16 \ SOFIA\ - Voglio dunque, disse
l'altitonante, che questa virtù compaia celebrata in cielo, acciò vegna per
l'avenire più stimata in terra. Questa si veda nel luogo in cui si vedea il
Triangolo, da cui comodamente è stata ed è significata la Fede; perché il
corpo triangulare (come quello che costa di minor numero di angoli ed è più
lontano da l'esser circulare) è più difficilmente mobile che qualsivoglia
altrimente figurato. Cossì viene purgata la spiaggia settentrionale, dove
comunmente son notate trecento sessanta stelle: tre maggiori, diece ed otto
grandi, ottanta ed una mediocri, cento settanta sette picciole, cinquanta ed
otto minori, tredeci minime, con una nebbiosa e nove oscure.
17 \ SAUL.\ Or espediscasi d'apportare
brevemente quel che fu fatto del resto.
18 \ SOFIA\ - Decerni, o padre, disse Momo, di
quel che doviam fare di quel protoparente de li agnelli; quello che
primieramente fa da la terra uscire le smorte piante, quello ch'apre l'anno e di
novo florido e frondoso manto ricoprisce quella ed invaghisce questo. - Perché
dubito, disse Giove, mandarlo con que' di Calabria, o Puglia, o de la Campania
felice, dove sovente dal rigor de l'inverno sono uccisi; né mi par convenevole
inviarlo tra gli altri delle Africane pianure e monti, dove per il soverchio
calore scoppiano; mi par convenientissimo ch'egli si trove circa il Tamisi, dove
ne veggio tanti belli, buoni, grassi, bianchi e snelli. E non son smisurati,
come nella regione circa il Nigero; non negri, come circa il Silere ed Ofito;
non macilenti, come circa il Sebeto e Sarno; non cattivi, qual circa il Tevere
ed Arno; non brutti a vedere, come circa il Tago; atteso che quel luogo quadra
alla staggione a cui è predominante, per esservi, più ch'in altra parte, oltre
e citra l'Equinoziale, temperato il cielo; ché dalla supposta terra essendo
bandito l'eccessivo rigor de le nevi e soverchio fervor del sole, come testifica
il perpetuamente verde e florido terreno, la fa fortunata, come di continua e
perpetua primavera. Giongi a questo che ivi, compreso dalla protezion de le
braccia dell'ampio Oceano, sarà sicuro da lupi, leoni ed orsi, ed altri fieri
animali e potestadi nemiche di terra ferma. E perché questo animale tiene del
prencipe, del duca, del conduttiero; ha del pastore, del capitano e guida; come
vedete in cielo, dove tutti li segni di questo cingolo del firmamento gli
correno a dietro; e come scorgete in terra, dove quando lui si balza o si
precipita, quando diverte o s'addrizza, quando declina o poggia, viene
facilissimamente tutto l'ovile ad imitarlo, consentirgli e seguitarlo; voglio
ch'in suo luogo succeda la virtuosa Emulazione, la Exemplarità e buono
Consentimento con altre virtudi sorelle e ministre; a le quali contrarii sono il
Scandalo, il Male Essempio; che hanno per ministra la Prevaricazione, la
Alienazione, il Smarrimento; per guida la Malizia o l'Ignoranza, o l'una e
l'altra insieme; per seguace la stolta Credulitade; la qual, come vedete, è
orba e tenta il camino tastando col bastone della oscura inquisizione e pazza
persuasione; per compagna perpetua la Viltade e Dappocagine; le quali tutte
insieme lascino queste sedie e vadano raminghe per la terra.
-19 - Bene ordinato - risposero li dei tutti. E
dimandò Giunone, che far volesse di quel suo Tauro, di quel suo bue, di quel
consorte del santo Presepio. Alla quale rispose: -Se non vuole andar vicino a
l'Alpi, alle rive del Po, dico alla metropoli del Piamonte, dove è la deliciosa
città di Taurino, denominata da lui, come da Bucefalo Bucefalia, dalle capri
l'isole che sono al rimpetto di Partenope verso l'occidente, Corveto in
Basilicata da' corvi, Mirmidonia da le formiche, dal Delfino il Delfinato, da
gli cinghiali Aprutio, Ofanto da' serpenti, ed Oxonia da non so qual altra
specie; vada per compagno al prossimo Montone; dove (come testificano le lor
carni che per la commodità dell'erbe fresche e delicatura de pascoli vegnono ad
essere le più preggiate del mondo) ha gli più bei consorti che veder si
possano nel rimanente del spacio de l'universo. - E dimandò Saturno del
successore; a cui rispose così: - Per esser questo un animal, che dura alle
fatiche, pazientemente laborioso, voglio che sin ora sia stato tipo della
Pazienza, Toleranza, Sufferenza e Longanimitade, virtudi in vero molto
necessarie al mondo; e quindi seco si partano (benché non mi curo che seco
vadano o non vadano) l'Ira, l'Indignazione, il Furore, che sogliono
accompagnarsi con questo talvolta stizzoso animale. Qua vedete uscir l'Ira
figlia, che è parturita da l'apprension d'Ingiustizia ed Ingiuria; e partesi
dolorosa e vendicativa, perché gli par inconveniente ch'il Dispreggio la guate
e gli percuota le guance. Come ha gli occhi infocati rivolti a Giove, a Marte, a
Momo, a tutti! Come li va a l'orecchio la Speranza de la vendetta, che la
consola alquanto e l'affrena, con mostrargli il favor della Possibilitade
minacciosa contra il Dispetto, la Contumelia ed il Strazio, suoi provocatori!
Là l'Impeto, suo fratello, che gli dona forza, nerbo e fervore; là la Furia
sorella, che l'accompagna con le tre sue figlie, cioè Excandescenzia,
Crudeltade e Vecordia. O quanto è difficile e molesto di contemprarla e
reprimerla! O quanto malaggiatamente può esser concotta e digerita da altri
dei, che da te, Saturno; questa, che ha le narici aperte, la fronte impetuosa,
la testa dura, gli denti mordaci, le labbia velenose, la lingua tagliente, le
mani graffiose, il petto tossicoso, la voce acuta, ed il color sanguigno. - Qua
Marte fece instanza per l'Ira, dicendo ch'ella alcuna volta, anzi più de le
volte, è virtude necessariissima, come quella che favorisce la Legge, dà forza
alla Verità, al Giudicio; ed acuisce l'Ingegno, ed apre il camino a molte
egregie virtudi, che non capiscono gli animi tranquilli. A cui Giove: - Che
allora, ed in quel modo con cui è virtù, sussista e consista tra quelle, a
quali si fa propicia; però mai s'accoste al cielo senza che gli vada innante il
Zelo con la lanterna de la Raggione.
-20 - E che farremo de le sette figlie
d'Atlante, o Padre? -disse Momo. A cui Giove: - Vadano con le sue sette lampe a
far lume a quel notturno e merinoziale santo sponsalizio; ed avertiscano d'andar
prima che la porta si chiuda e che comincie da sopra a destillar il freddo, il
ghiaccio, la bianca neve, atteso che allora in vano alzaranno le voci e
picchiaranno, perché gli sia aperta la porta, rispondendogli il portinaio che
tiene la chiave: Non vi conosco. Avisatele che saran pazze, se faranno venir
meno l'oglio a la lucerna; la qual se fia umida sempre e non mai secca, averrà
che non sieno tal volte prive di splendor di degna laude e gloria. Ed in questa
region che lasciano, vegna a metter la sua stanza la Conversazione, il
Consorzio, il Connubio, la Confraternitade, Ecclesia, Convitto, Concordia,
Convenzione, Confederazione; ed ivi sieno gionte a l'Amicizia, perché, dove non
è quella, in suo luogo è la Contaminazione, Confusione e Disordine. E se non
son rette, non sono esse; perché mai si trovano in verità (benché il più de
le volte in nome) tra scelerati; ma hanno verità di Monopolio, Conciliabulo,
Setta, Conspirazione, Turba, Congiurazione, o cosa d'altro nome ed essere
detestabile. Non sono tra irrazionali e quei che non hanno proponimento di buon
fine; non dove è l'ocioso medesimo credere ed intendere; ma dove si concorre a
medesima azione circa le cose similmente intese. Perseverano tra buoni; e son
brevi ed inconstanti tra perversi, come tra quei de quali dissemo in proposito
della Legge e Giudicio, nelli quali non si trova veramente concordia, come color
che non versano circa virtuose azioni.
21 \ SAUL.\ Quei non sono concordi per
parimente intendere, ma nel parimente ignorare e malignare e nel non intendere
secondo diverse raggioni. Quelli non consenteno in parimente oprare a buon fine,
ma in far parimente poco caso di buone opre e stimar indegni tutti gli atti
eroici. Ma torniamo a noi. Che si fe' de' doi giovanetti?
22 \ SOFIA\ Cupido le dimandò per il gran
Turco; Febo volea che fussero paggi di qualche principe italiano; Mercurio, che
fussero cubicularii de la gran camera. A Saturno parea che servissero per
iscaldatoio di qualche vecchio e gran prelato, o pur a lui, povero decrepito. A
cui Venere disse: - Ma chi, o barba bianca, le assicura che non gli dii di morso
che non li mangi, se gli tuoi denti non perdonano a' proprii figli, per gli
quali sei diffamato per parricida antropofago? - E peggio, disse Mercurio, che
è dubio, che per qualche ritrosa stizza che l'assale, non gli piante quella
punta di falce su la vita. Lascio che, se pur a questi può esser donato di
rimaner in corte de gli dei, non sarà più raggione che toccano a voi, buon
padre, che ad altri molti non meno reverendi che vi possono aver aperti gli
occhi. - Qua sentenziò Giove, che non permetteva che in posterum in
corte de gli dei si admettano paggi o altri servitori che non abbiano molto
senno, discrezione e barba. E che questi si mettessero alle sorti, mediante le
quali si definisse a chi de gli dei toccasse di farne provisione per qualche
amico in terra. - E mentre alcuni instavano che ne determinasse lui, disse che
non volea per queste cose gelose generar suspizion di parzialità ne gli lor
animi, quasi inchinando più ad una che ad un'altra parte di discordanti.
23 \ SAUL.\ Buono ordine, per riparare a le
dissenzioni ch'arrebono possute accadere per questi!
24 \ SOFIA\ Chiese Venere che in luogo
succedesse l'Amicizia, l'Amore, la Pace, con gli lor testimoni Contubernio,
Bacio, Imbracciamento, Carezze, Vezzi, e gli tutti fratelli e servitori,
ministri, assistenti e circonstanti del gemino Cupido. - La dimanda è giusta, -
dissero gli dei tutti. -Che si faccia, - disse Giove. Appresso, dovendosi
definire del Granchio (il quale, perché appar scottato dall'incendio del foco e
fatto rosso dal calor del sole, non si trova altrimente in cielo che se fusse
condannato a le pene de l'inferno), dimandò Giunone, come di cosa sua, che ne
volesse far il senato; di cui la più gran parte lo rimese al suo arbitrio. E
lei disse che, se Nettuno, dio del mare, il comportava, arrebe desiderato che
s'attuffasse a l'onde del mare Adriatico, là dove ha più compagni che non ha
stelle in cielo. Oltre, che sarà appresso l'onoratissima Republica Veneziana la
qual, come fusse anch'ella un granchio, a poco a poco da l'oriente sen va verso
l'occidente retrogradando. Consentì quel Dio che porta il gran tridente. E
Giove disse, che in loco del Cancro starà bene il tropico della Conversione,
Emendazione, Repressione, Ritrattazione, virtudi contrarie al Mal progresso.
Ostinazione e Pertinacia; e subito soggionse il proposito del Leone, dicendo: -
Ma questo fiero animale guardisi di seguitar il Cancro e di voler là ancora
farsegli compagno; perché, se va a Venezia, trovarà ivi un altro, più che lui
essere possa, forte; percioché quello non solo sa combattere in terra, ma oltre
guerreggia bene in acqua, e molto meglio in aria, atteso che ha l'ali, è
canonizato, ed è persona di lettere: però sarà più espediente per lui di
calarsene a gli Libici deserti dove trovarà moglie e compagni. E mi par che a
quella piazza si debba transferir quella Magnanimità, quella eroica
Generositade, che sa perdonar a' soggetti, compatir a gl'infermi, domar
l'Insolenza, conculcar la Temeritade, rigettar la Presunzione e debellar la
Suberbia. - Assai bene! - disse Giunone e la maggior parte del concistoro.
Lascio di riferire con quanto grave, magnifico e bello apparato e gran comitiva
se ne andasse questa virtude; perché al presente, per la angustia del tempo,
voglio che vi baste di udire il principale circa la riforma e disposizione delle
sedie; essendo che sono per informarvi di tutto il resto quando sedia per sedia
vi condurrò vedendo ed essaminando queste corti.
25 \ SAUL.\ Bene, o cara Sofia. Molto mi appaga
la tua cortesissima promessa; però son contento, che con la maggior brevità,
che vi piace, mi doniate saggio dell'ordine e spaccio dato all'altre sedie e
cangiamenti.
26 \ SOFIA\ - Or, che sarà della Vergine? -
dimandò la casta Lucina, la cacciatrice Diana. - Fategli, rispose Giove,
intendere se la vuole andare ad esser priora o abbatessa delle suore o monache,
le quali son ne' conventi o monasterii de l'Europa; dico, in que' luoghi dove
non son state messe in rotta e dispersione da la peste; o pur a governar le
damigelle de le corti, a fin che non le assalte la gola di mangiar li frutti
avanti o fuor de la staggione, o rendersi compagne de le lor signore. - Oh,
disse Dittinna, che non puote; e dice che non vuole in punto alcuno ritornar
onde è una volta scacciata, e donde è tante volte fuggita. -Il protoparente
suggionse: - Tegnasi dunque ferma in cielo, e guardisi bene di cascare, e veda
di non farsi contaminare in questo loco. - Disse Momo: - Mi par che la potrà
perseverar pura e netta, si perseverarà di esser lungi da animali raggionevoli,
eroi e dei, e si terrà tra le bestie, come sin al presente è stata, avendo da
la parte occidentale il ferocissimo Leone, e dall'oriente il tossicoso Scorpio.
Ma non so come si portarà adesso, dove gli è prossima la Magnanimitade,
l'Amorevolezza, la Generositade e Virilitade, che facilmente montandogli a
dosso, per raggion di domestico contatto facendoli contraere del magnanimo,
amoroso, generoso e virile, da femina la faranno dovenir maschio, e da selvaggia
ed alpestre dea, e nume da Satiri, Silvani e Fauni, la convertiranno in nume
galante, umano, affabile ed ospitale. - Sia quel che deve essere, rispose Giove;
ed intra tanto, gionte a lei nella medesima sedia sieno la Castità, la
Pudicizia, la Continenza, Purità, Modestia, Verecundia ed Onestade, contrarie
alla prostituta Libidine, effusa Incontinenza, Impudicizia, Sfacciatagine; per
le quali intendo la Verginitade esser una de le virtudi, atteso che quanto a sé
non è cosa di valore. Perché, quanto a sé, non è virtù né vizio, e non
contiene bontà, dignità, né merito; e quando non serve alla natura imperante,
viene a farsi delitto, impotenza, pazzia e stoltizia espressa: e se ottempera a
qualche urgente raggione, si chiama Continenza, ed ha l'esser di virtù, per
quel che participa di tal fortezza e dispreggio di voluttadi: il quale non è
vano e frustratorio, ma conferisce alla conversazione umana ed onesta
satisfazione altrui. - E che farremo de le Bilancie? - disse Mercurio. - Vadano
per tutto, rispose il primo presidente: vadano per le fameglie, acciò con esse
li padri veggano dove meglio inchinano gli figli, se a lettere, se ad armi; se
ad agricoltura, se a religione; se a celibato, se ad amore; atteso che non è
bene che sia impiegato l'asino a volare e ad arare i porci. Discorrano le
Academie ed Universitadi, dove s'essamine se quei che insegnano, son giusti di
peso, se son troppo leggieri o trabuccanti; e se quei che presumeno d'insegnar
in catedra e scrittura, hanno necessità d'udire e studiare: e bilanciandoli
l'ingegno, si vegga se quello impenna over impiomba; e se ha della pecora o pur
del pastore; e se è buono a pascer porci ed asini o pur creature capaci di
raggione. Per gli edificii Vestali vadano a far intendere a questi ed a quelle,
quale e quanto sia il momento del contrapeso, per violentar la legge di natura
per un'altra sopra- o estra- o contranaturale, secondo o fuor d'ogni raggione e
debito. Per le corti, a fin che gli ufficii, gli onori, le sedie, le grazie ed
exenzioni corrano secondo che ponderano gli meriti e dignitade di ciascuno;
perché non meritano d'esser presidenti a l'ordine, ed a gran torto della
Fortuna presiedeno a l'ordine quei che non san reggere secondo l'ordine. Per le
republiche, acciò ch'il carrico delle administrazioni contrapesi alla
sufficienza e capacità de gli suggetti; e non si distribuiscano le cure con
bilanciar gli gradi del sangue, de la nobilitade, de' titoli, de ricchezza: ma
de le virtudi che parturiscono gli frutti de le imprese; perché presiedano i
giusti, contribuiscano i facultosi, insegnino li dotti, guideno gli prudenti,
combattano gli forti, conseglino quei ch'han giudicio, comandino quei ch'hanno
autoritade. Vadano per gli stati tutti, a fin che negli contratti di pace,
confederazioni e leghe non si prevariche e decline dal giusto, onesto ed utile
commune, attendendo alla misura e pondo della fede propria e de quei con gli
quali si contratta; e nell'imprese ed affari di guerra si consideri in quale
equilibrio concorrano le proprie forze con quelle del nemico, quello che è
presente e necessario con quello che è possibile nel futuro, la facilità del
proponere con la difficultà delle exequire, la comodità dell'entrare con
l'incomodo dell'uscire, l'inconstanza d'amici con la constanza de nemici, il
piacere d'offendere con il pensiero di defendersi, il comodo turbar quel d'altri
con il malaggiato conservare il suo, il certo dispendio ed iattura del proprio,
con l'incerto acquisto e guadagno de l'altrui. Per tutti gli particulari vadano,
acciò ognuno contrapesi quel che vuole con quel che sa; quel che vuole e sa con
quel che puote; quel che vuole, sa e puote con quel che deve; lo che vuole, sa,
puote e deve con quel che è, fa, ha ed aspetta. - Or, che metteremo dove son le
Bilancie? Che sarà in loco della Libra? - domandò Pallade. Risposero molti:
-La Equità, il Giusto, la Retribuzione, la raggionevole Distribuzione, la
Grazia, la Gratitudine, la buona Conscienza, la Recognizion di se stesso, il
Rispetto che si deve a' maggiori, l'Equanimità che si deve ad uguali, la
Benignità che si richiede verso gl'inferiori, la Giustizia senza rigore a
riguardo di tutti, che spingano l'Ingratitudine, la Temeritade, l'Insolenza,
l'Ardire, l'Arroganza, il poco Rispetto, l'Iniquitade, l'Ingiuria ed altre
famigliari di queste. - Bene, bene! - dissero tutti del concistoro. Dopo la qual
voce s'alza in piedi il bel crinito Apolline, e disse: - È pur gionta l'ora, o
dei, in cui si deve donar degna ispedizione a questo verme infernale che fu la
principal caggione dell'orribil caso e crudel morte del mio diletto Fetonte;
perché, quando quel miserello dubbioso e timido con gli mal noti destrieri
guidava del mio eterno foco il carro, questo pernicioso mostro minaccioso venne
a farsegli talmente incontro con la punta della sua coda mortale, che per
l'orrendo spavento facendolo di se stesso fuori, li fe' dalle tenere mani cascar
sul tergo de' cavagli i freni: onde la tanto signalata ruina del cielo, che
ancor nella via detta lattea appare arso; il sì famoso danno del mondo, che in
molte e molte parti apparve incinerito; e sì fattamente ontoso scorno contro la
mia deitade ne seguitasse. È pur vergogna che tanto tempo una simil sporcaria
abbia nel cielo occupato il spacio di doi segni.
-27 - Vedi, dunque, o Diana, disse Giove, quel
che vuoi far di questo tuo animale, il qual vivo è tristo, e morto non serve a
nulla. - Permettetemi (se cossì piace a voi), disse la vergine dea, che ritorne
a Scio nel monte Chelippio; dove per mio ordine nacque a mal grado del
presuntuoso Orione, ed ivi in quella materia di cui fu prodotto, si risolva.
Seco si partano la Fraude, la Decepzione, l'Inganno, la perniciosa Finzione, il
Dolo, l'Ipocrisia, la Buggia, il Pergiuro, il Tradimento; e quivi succedano le
contrarie virtudi, Sincerità, Execuzion di promesse, Osservanza di fede, e le
lor sorelle, seguaci e ministre. - Fanne quel che ti piace, disse Momo; perché
gli fatti di costui non ti saran messi in controversia, come a Saturno il
vecchio quegli de' doi fanciulli. E veggiamo presto quel che si deve far del
figlio Euschemico, che son già tante migliaia d'anni che con tema di mandarla
via senza averne un'altra, tiene quella vedova saetta incoccata a l'arco,
facendo la mira là dove si continua la coda alla spina del dorso di Scorpione.
E certo, se, come lo stimo pur troppo prattico in prender mira, in collimare,
come dicono, al scopo che è la metà de l'arte sagittaria, lo potesse ancor
stimare non ignorante in quel rimanente circa il tirare e dar di punta al
bersaglio, che fa l'altra metà de l'esercizio; donarei conseglio che lo
inviassemo a guadagnarsi un poco di riputazione nell'isola Britannica, dove
sogliono di que' messeri, altri in giubbarello ed altri in saio faldeggiante,
celebrar la festa del prencipe Artur e duca di Sciardichi. Ma dubito che,
mancandogli il verbo principale, per quanto appartiene a donar dentro al segno,
non vegna a far ingiuria al mistiero. Per tanto vedete voi altri che ne volete
fare; perché (a dir il vero, come la intendo) non mi par comodo ad altro che ad
essere spaventacchio degli ucelli, per guardia, verbigrazia, delle fave o de'
meloni. - Vada, disse il Patriarca, dove vuole; donegli pur alcun di voi il
meglior ricapito che gli pare; e nel suo luogo sia la figurata Speculazione,
Contemplazione, Studio, Attenzione, Aspirazione, Appulso ad ottimo fine, con le
sue circonstanze e compagnie.
-28 Qua soggionse Momo: - Che vuoi, padre, che
si debba fare di quel santo, intemerato e venerando Capricorno? di quel tuo
divino e divo connutrizio, di quel nostro strenuo e più che eroico commilitone
contra il periglioso insulto della protervia gigantesca? di quel gran
consegliero a guerra, che trovò il modo di examinare quel nemico che da la
spelunca del monte Tauro apparve ne l'Egitto formidando antigonista de gli dei?
di quello il quale (perché apertamente non arremmo avuto ardire d'assalirlo) ne
dié lezione di trasformarci in bestie, a fin che l'arte ed astuzia supplisse al
difetto di nostra natura e forze per parturirci onorato trionfo dell'aversarie
posse? Ma, oimè, questo merito non è senza qualche demerito; perché questo
bene non è senza qualche male aggiunto, forse perché è prescritto e definito
dal fato, che nessun dolce sia absoluto da qualche fastidio ed amaro, o per non
so qual'altra caggione. - Or che male, disse Giove, ne ha egli possuto apportar,
che si possa dir esser stato congionto a quel tanto bene? che indignità, che
abbia possuto accompagnarsi con tanto trionfo? - Rispose Momo: - Fece egli con
questo, che gli Egizii venessero ad onorar le imagini vive de le bestie, e ne
adorassero in forma di quelle; onde venemo ad esser beffati, come ti dirò. - E
questo, o Momo, disse Giove, non averlo per male, perché sai, che gli animali e
piante son vivi effetti di natura; la qual natura (come devi sapere) non è
altro che dio nelle cose.
-29 \ SAUL.\ Dunque, natura est deus in
rebus.
30 \ SOFIA\ - Però, disse, diverse cose vive
rapresentano diversi numi e diverse potestadi; che oltre l'essere absoluto che
hanno, ottegnono l'essere comunicato a tutte le cose secondo la sua capacità e
misura. Onde Idio tutto (benché non totalmente ma in altre più e meno
eccellentemente) è in tutte le cose. Però Marte si trova più efficacemente in
natural vestigio e modo di sustanza non solo in una vipera e scorpione, ma ed in
una cipolla ed aglio, che in qualsivoglia maniera di pittura o statua inanimata.
Cossì pensa del Sole nel croco, nel narciso, nell'elitropio, nel gallo, nel
leone; cossì pensar devi di ciascuno de gli dei per ciascuna de le specie sotto
diversi geni de lo ente, perché sicome la divinità descende in certo modo per
quanto che si comunica alla natura, cossì alla divinità s'ascende per la
natura, cossì per la vita rilucente nelle cose naturali si monta alla vita che
soprasiede a quelle. - È vero quel che dici, rispose Momo: perché in fatto
vedo, come que' sapienti con questi mezzi erano potenti a farsi familiari,
affabili e domestici gli dei che per voci, che mandavano da le statue, gli
donavano consegli, dottrine, divinazioni ed instituzioni sopraumane; onde con
magici e divini riti per la medesima scala di natura salevano a l'alto della
divinità, per la quale la divinità descende sino alle cose minime per la
comunicazione di se stessa. Ma quel che mi par da deplorare, è che veggio
alcuni insensati e stolti idolatri, li quali, non più che l'ombra s'avicina
alla nobilità del corpo, imitano l'eccellenza del culto de l'Egitto; e che
cercano la divinità, di cui non hanno raggione alcuna, ne gli escrementi di
cose morte ed inanimate; che con tutto ciò si beffano non solamente di quei
divini ed oculati cultori, ma anco di noi, come di color che siamo riputati
bestie; e quel che è peggio, con questo trionfano, vedendo gli lor pazzi riti
in tanta riputazione, e quelli de gli altri a fatto svaniti e cassi. - Non ti
dia fastidio questo, o Momo, disse Iside, perché il fato ha ordinata la
vicissitudine delle tenebre e la luce. - Ma il male è, rispose Momo, che essi
tegnono per certo di essere nella luce. - Ed Iside soggionse, che le tenebre non
gli sarrebono tenebre, se da essi fussero conosciute. Quelli dunque, per
impetrar certi beneficii e doni da gli dei, con raggione di profonda magia
passavano per mezzo di certe cose naturali, nelle quali in cotal modo era
latente la divinitade, e per le quali essa potea e volea a tali effetti
comunicarsi. Là onde que' ceremoni non erano vane fantasie, ma vive voci che
toccavano le proprie orecchie de gli Dei; li quali, come da lor vogliano essere
intesi non per voci d'idioma che lor sappiano fengere, ma per voci di naturali
effetti, talmente per atti di ceremoni circa quelle volsero studiare di essere
intesi da noi: altrimente cossì fussemo stati sordi a gli voti, come un Tartaro
al sermone greco che giamai udìo. Conoscevano que' savii dio essere nelle cose,
e la divinità, latente nella natura, oprandosi e scintillando diversamente in
diversi suggetti, e per diverse forme fisiche, con certi ordini, venir a far
partecipi di sé, dico de l'essere, della vita ed intelletto; e però con gli
medesimamente diversi ordini si disponevano alla recepzion de tanti e tai doni,
quali e quanti bramavano. Quindi per la vittoria libavano a Giove magnanimo
nell'aquila, dove, secondo tale attributo, è ascosa la divinità; per la
prudenza nelle operazioni a Giove sagace libavano nel serpente; contra la
prodizione a Giove minace nel crocodillo; cossì per altri innumerabili fini
libavano in altre specie innumerabili. Il che tutto non si faceva senza magica
ed efficacissima raggione.
31 \ SAUL.\ Come dite cossì, o Sofia, se Giove
non era nomato in tempo di egizii culti, ma si trovò molto tempo dopo, appresso
gli Greci?
32 \ SOFIA\ Non aver pensiero del nome greco, o
Saulino; perché io parlo secondo la consuetudine più universale, e perché gli
nomi (anco appresso gli Greci) sono apposticci alla divinità: atteso che tutti
sanno bene che Giove fu un re di Creta, uomo mortale, e di cui il corpo, non
meno che quel di tutti gli altri uomini, è putrefatto o incinerito. Non è
occolto qualmente Venere sia stata una donna mortale, la qual fu regina
deliciosissima, e sopra modo bella, graziosa e liberale in Ciprio. Similmente
intendi de tutti gli altri dei che son conosciuti per uomini.
33 \ SAUL.\ Come, dunque, le adoravano ed
invocavano?.
34 \ SOFIA\ Ti dirò. Non adoravano Giove, come
lui fusse la divinità, ma adoravano la divinità, come fusse in Giove; perché
vedendo un uomo in cui era eccellente la maestà, la giustizia, la magnanimità,
intendevano in lui esser dio magnanimo, giusto e benigno; ed ordinavano e
mettevano in consuetudine che tal dio, o pur la divinità, in quanto che in tal
maniera si comunicava, fusse nominata Giove; come sotto il nome di Mercurio
Egizio sapientissimo fusse nominata la divina sapienza, interpretazione e
manifestazione. Di maniera che di questo e quell'uomo non viene celebrato altro
che il nome e representazion della divinità, che con la natività di quelli era
venuta a comunicarsi a gli uomini, e con la morte loro s'intendeva aver compìto
il corso de l'opra sua, o ritornata in cielo.
35 Cossì li numi eterni (senza ponere
inconveniente alcuno contra quel che è vero della sustanza divina) hanno nomi
temporali altri ed altri in altri tempi ed altre nazioni: come possete vedere
per manifeste istorie, che Paulo Tarsense fu nomato Mercurio, e Barnaba Galileo
fu nomato Giove, non perché fussero creduti essere que' medesimi dei; ma
perché stimavano che quella virtù divina che si trovò in Mercurio e Giove in
altri tempi, all'ora presente si trovasse in questi, per l'eloquenza e
persuasione ch'era nell'uno, e per gli utili effetti che procedevano da l'altro.
36 Ecco dunque come mai furono adorati
crocodilli, galli, cipolle e rape; ma gli Dei e la divinità in crocodilli,
galli ed altri; la quale in certi tempi e tempi, luoghi e luoghi,
successivamente ed insieme insieme, si trovò, si trova e si trovarà in diversi
suggetti quantunque siano mortali: avendo riguardo alla divinità, secondo che
ne è prossima e familiare, non secondo è altissima, absoluta in se stessa, e
senza abitudine alle cose prodotte. Vedi dunque come una semplice divinità che
si trova in tutte le cose, una feconda natura, madre conservatrice de
l'universo, secondo che diversamente si comunica, riluce in diversi soggetti, e
prende diversi nomi. Vedi come a quell'una diversamente bisogna ascendere per la
participazione de diversi doni; altrimente in vano si tenta comprendere l'acqua
con le reti e pescar i pesci con la pala. Indi ne gli doi corpi che vicino a
questo globo e nume nostro materno son più principali, cioè nel sole e luna,
intendeano la vita che informa le cose secondo due raggioni più principali.
Appresso apprendeano quella secondo sette altre raggioni, distribuendola a sette
lumi chiamati erranti; a gli quali, come ad original principio e feconda causa,
riduceano le differenze delle specie in qualsivoglia geno: dicendo de le piante,
de li animali, de le pietre, de gl'influssi, e di altre ed altre cose, queste di
Saturno, queste di Giove, queste di Marte, queste e quelle di questo e di
quell'altro. Cossì de le parti, de' membri, de' colori, de' sigilli, de'
caratteri, di segni, de imagini destribuite in sette specie. Ma non manca per
questo, che quelli non intendessero una essere la divinità che si trova in
tutte le cose, la quale, come in modi innumerabili si diffonde e communica,
cossì ave nomi innumerabili, e per vie innumerabili, con raggioni proprie ed
appropriate a ciascuno, si ricerca, mentre con riti innumerabili si onora e
cole, perché innumerabili geni di grazia cercamo impetrar da quella. Però in
questo bisogna quella sapienza e giudizio, quella arte, industria ed uso di lume
intellettuale, che dal sole intelligibile a certi tempi più ed a certi tempi
meno, quando massima- e quando minimamente viene revelato al mondo. Il quale
abito si chiama Magia: e questa, per quanto versa in principii sopranaturali, è
divina; e quanto che versa circa la contemplazion della natura e perscrutazion
di suoi secreti, è naturale; ed è detta mezzana e matematica, in quanto che
consiste circa le raggioni ed atti de l'anima, che è nell'orizonte del
corporale e spirituale, spirituale ed intellettuale.
37 Or, per tornare al proposito donde siamo
dipartiti, disse Iside a Momo, che gli stupidi ed insensati idolatri non aveano
raggione di ridersi del magico e divino culto degli Egizii; li quali in tutte le
cose ed in tutti gli effetti, secondo le proprie raggioni di ciascuno,
contemplavano la divinità; e sapeano per mezzo delle specie che sono nel grembo
della natura, ricevere que' beneficii che desideravano da quella; la quale come
dal mare e fiumi dona i pesci, da gli deserti gli salvatici animali, da le
miniere gli metalli, da gli arbori le poma; cossì da certe parti, da certi
animali, da certe bestie, da certe piante porgono certe sorti, virtudi, fortune
ed impressioni. Però la divinitade nel mare fu chiamata Nettuno, nel sole
Apolline, nella terra Cerere, ne gli deserti Diana; e diversamente in ciascuna
de le altre specie, le quali, come diverse idee, erano diversi numi nella
natura, li quali tutti si referivano ad un nume de' numi e fonte de le idee
sopra la natura.
38 \ SAUL.\ Da questo parmi che derive quella
Cabala de gli Ebrei, la cui sapienza (qualunque la sia in suo geno) è proceduta
da gli Egizii appresso de quali fu instrutto Mosè. Quella primieramente al
primo principio attribuisce un nome ineffabile, da cui secondariamente procedeno
quattro, che appresso si risolveno in dodici; i quali migrano per retto in
settantadoi, e per obliquo e retto in cento quarantaquattro; e cossì oltre, per
quaternarii e duodenarii esplicati, in innumerabili, secondo che innumerabili
sono le specie. E talmente, secondo ciascun nome (per quanto vien commodo al
proprio idioma), nominano un dio, un angelo, una intelligenza, una potestà, la
quale è presidente ad una specie; onde al fine si trova che tutta la deità si
riduce ad un fonte, come tutta la luce al primo e per sé lucido, e le imagini
che sono in diversi e numerosi specchi, come in tanti suggetti particulari, ad
un principio formale ed ideale, fonte di quelle.
39 \ SOFIA\ Cossì è. Talmente dunque quel
dio, come absoluto, non ha che far con noi; ma per quanto si comunica alli
effetti della natura, ed è più intimo a quelli che la natura istessa; di
maniera che se lui non è la natura istessa, certo è la natura de la natura; ed
è l'anima de l'anima del mondo, se non è l'anima istessa: però, secondo le
raggioni speciali che voleano accomodarsi a ricevere l'aggiuto di quello, per la
via delle ordinate specie doveano presentarsegli avanti: come chi vuole il pane,
va al fornaio; chi vuole il vino, al cellaraio; chi appete gli frutti, va al
giardiniero; chi dottrina, al mastro; e cossì va discorrendo per tutte l'altre
cose: in tanto che una bontà, una felicità, un principio absoluto de tutte
ricchezze e beni, contratto a diverse raggioni, effonde gli doni secondo
l'exigenze de particulari.
40 Da qua puoi inferire, come la sapienza de
gli Egizii, la quale è persa, adorava gli crocodilli, le lacerte, li serpenti,
le cipolle; non solamente la terra, la luna, il sole ed altri astri del cielo;
il qual magico e divino rito (per cui tanto comodamente la divinità si
comunicava a gli uomini) viene deplorato dal Trimegisto, dove, raggionando ad
Asclepio, disse: - Vedi, o Asclepio, queste statue animate, piene di senso e di
spirito, che fanno tali e tante degne operazioni? Queste statue, dico,
prognostricatrici di cose future, che inducono le infirmitadi, le cure, le
allegrezze e le tristizie, secondo gli meriti ne gli affetti e corpi umani? Non
sai, o Asclepio, come l'Egitto sia la imagine del cielo, e per dir meglio, la
colonia de tutte cose che si governano ed esercitano nel cielo? A dir il vero,
la nostra terra è tempio del mondo. Ma, oimè, tempo verrà che apparirà
l'Egitto in vano essere stato religioso cultore della divinitade; perché la
divinità, remigrando al cielo, lasciarà l'Egitto deserto; e questa sedia de
divinità rimarrà vedova da ogni religione, per essere abandonata dalla
presenza de gli dei, perché vi succederà gente straniera e barbara senza
religione, pietà, legge e culto alcuno. O Egitto, Egitto, delle religioni tue
solamente rimarranno le favole, anco incredibili alle generazioni future, alle
quali non sarà altro, che narri gli pii tuoi gesti, che le lettere sculpite
nelle pietre, le quali narraranno non a dei ed uomini (perché questi saranno
morti, e la deitade sarà trasmigrata in cielo), ma a Sciti ed Indiani, o altri
simili di salvaggia natura. Le tenebre si preponeranno alla luce, la morte sarà
giudicata più utile che la vita, nessuno alzarà gli occhi al cielo, il
religioso sarà stimato insano, l'empio sarà giudicato prudente, il furioso
forte, il pessimo buono. E credetemi che ancora sarà definita pena capitale a
colui che s'applicarà alla religion della mente; perché si trovaranno nove
giustizie, nuove leggi, nulla si trovarà di santo, nulla di relligioso: non si
udirà cosa degna di cielo o di celesti. Soli angeli perniciosi rimarranno, li
quali meschiati con gli uomini forzaranno gli miseri all'audacia di ogni male,
come fusse giustizia; donando materia a guerre, rapine, frodi e tutte altre cose
contrarie alla anima e giustizia naturale: e questa sarà la vecchiaia ed il
disordine e la irreligione del mondo. Ma non dubitare, Asclepio, perché, dopo
che saranno accadute queste cose, allora il signore e padre Dio, governator del
mondo, l'omnipotente proveditore, per diluvio d'acqua o di fuoco, di morbi o di
pestilenze, o altri ministri della sua giustizia misericordiosa, senza dubbio
donarà fine a cotal macchia, richiamando il mondo all'antico volto.
-41 \ SAUL.\ Or tornate al proposito che tenne
Iside con Momo.
42 \ SOFIA\ Or, al proposito di calumniatori
del culto egizio, li recitò quel verso del poeta:
Loripedem rectus derideat, Aethiopem albus.
Le insensate bestie e veri bruti si ridono de noi dei, come adorati in bestie e
piante e pietre, e de gli miei Egizii che in questo modo ne riconoscevano; e non
considerano che la divinità si mostra in tutte le cose; benché per fine
universale ed eccellentissimo in cose grandi e principii generali; e per fini
prossimi, comodi e necessarii a diversi atti della vita umana, si trova e vede
in cose dette abiettissime, benché ogni cosa, per quel che è detto, ha la
divinità latente in sé; perché la si esplica e comunica insino alli minimi e
dalli minimi secondo la lor capacità; senza la qual presenza niente arrebe
l'essere, perché quella è l'essenza de l'essere del primo sin all'ultimo. A
quel che è detto, aggiongo, e dimando: Per qual raggione riprendeno gli Egipzii
in quello nel che essi ancora son compresi? E per venire a coloro che da noi o
fuggirono, o fûrno come leprosi scacciati a gli deserti, non sono essi, nelle
loro necessitati, ricorsi al culto egizio, quando ad un bisogno mi adorarono
nell'idolo d'un vitello d'oro; e ad un'altra necessità, s'inchinorno, piegâro
le ginocchia ed alzâro le mani a Theuth in forma del serpente di bronzo,
benché per loro innata ingratitudine, dopo impetrato favore dell'uno e l'altro
nume, ruppero l'uno e l'altro idolo? Appresso, quando si hanno voluto onorare
con dirsi santi, divini e benedetti, in che maniera han possuto farlo eccetto
con intitularsi bestie, come si vede dove il padre de dodici tribù, per
testamento donando a' figli la sua benedizione, le magnificò con nome di dodici
bestie? Quante volte chiamano il lor vecchio dio risvegliato Leone, Aquila
volante, Fuoco ardente, Procella risonante, Tempesta valorosa; ed il novamente
conosciuto da gli altri lor successori Pellicano insanguinato, Passare
solitario, Agnello ucciso. E cossì lo chiamano, cossì lo pingono, cossì
l'intendeno, dove lo veggio in statua e pittura con un libro, non so se posso
dire, in mano, che non può altro che lui aprirlo e leggerlo. Oltre, tutti quei
che son per credergli deificati, non son chiamati da lui, e si chiamano essi
ancor gloriandosi, pecore sue, sua pastura, sua mandra, suo ovile, suo gregge?
Lascio che gli medesimi veggio significati per gli asini: per la femina madre,
il popolo giudaico; e l'altre generazioni che se gli doveano aggiongere,
prestandogli fede, per il polledro figlio. Vedete, dunque, come questi divi,
questo geno eletto vien significato per sì povere e basse bestie; e poi si
burlano di noi che siamo presentati in più forti, degne ed imperiose altre?
43 Lascio che tutte le generazioni illustri ed
egregie mentre per gli lor segni ed imprese vogliono mostrarsi ed essere
significate, ecco le vedi aquile, falconi, nibbii, cuculi, civette, nottue,
buboni, orsi, lupi, serpi, cavalli, buovi, becchi; e tal volta, perché manco si
stimano degni de farsi una bestia intiera, ecco vi presentano un pezzo di
quella, o una gamba, o una testa, o un paio di corna, o una coda, o un nerbo. E
non pensate che, se si potessero trasformare in sustanza di tali animali, non lo
farrebono volentiera; atteso, a qual fine stimate che pingono nel suo scudo le
bestie quando le accompagnano col suo ritratto, con la sua statua? Pensate forse
che vogliono dire altro eccetto: Questo, questo, di cui, o spettatore, vedi il
ritratto, è quella bestia, che gli sta vicina e compiuta; overo: Se volete
saper chi è questa bestia, sappiate che la è costui di cui vedete qua il
ritratto e qua scritto il nome. Quanti sono, che per meglior parere bestie,
s'impellicciano di lupo, di volpe, di tasso, di caprone, di becco, onde, ad
essere uno di cotai animali, non par che gli manca altro che la coda? Quanti
sono che per mostrar quanto hanno dell'ucello, del volatile e far conoscere con
quanta leggerezza si potrebono sullevare alle nubi, s'impiumano il cappello e la
barretta?
44 \ SAUL.\ Che dirai de le dame nobili, tanto
de le grandi, quanto di quelle che voglion far del grande? non fanno elle più
gran caso delle bestie che de proprii figli? Eccole, quasi dicessero: - O figlio
mio, fatto a mia imagine: se come ti mostri uomo, cossì ti mostrassi coniglio,
cagnolina, martora, gatto, gibellino; certo, si come ti ho commesso a le braccia
de la serva, de la fante, de questa ignobile nutriccia, di questa sugliarda,
sporca, imbreaca, che facilmente, infettandoti di lezzo, ti farà morire;
perché conviene anco che dormi con ella; io, io sarei quella che medesima ti
portarei in braccio, ti sostenerei, lattarei, pettinarei, ti cantarei, ti farei
di vezzi, ti baciarei, come fo a quest'altro gentile animale, il qual non voglio
che si domestiche con altro che con me; non permetterò che sia tocco da altro
che da me; e non lasciarò star in altra camera e dormir in altro letto che nel
mio. Questo se averrà che la cruda Atropo mi tolga, non patirò che vegna
sepolto come tu, ma gl'imbalsimarò, gli perfumarò la pelle; ed a quella, come
a divina reliquia, dove mancano li membri de la fragil testa e piedi, io vi
formarò la figura in oro smaltato ed asperso di diamanti, di perle e di rubini.
Cossì, dove bisognarà onoratamente comparire, il portarò meco, ora
avolgendomelo al collo, ora me l'accostando al volto, a la bocca, al naso; ora
me l'appoggiarò al braccio; ora, dismettendo il braccio perpendicolarmente in
giù, lo lasciarò ir prolungato verso le falde, a fin che non sia parte di
quello che non sia messa in prospettiva. - Onde aperto si vede, quanto con più
sedula cura queste più generose donne sono affette circa una bestia che verso
un proprio figlio, per far vedere quanta sia la nobilità di quelle sopra
questi, quanto quelle sono più onorabili che questi.
45 \ SOFIA\ E per tornare a più seriose
raggioni, quelli che sono, o si tegnono più gran prencipi, per far con espressi
segni evidente la loro potestà e divina preeminenza sopra gli altri, s'adattano
in testa la corona; la quale non è altro che figura di tante corna, che in
cerchio gl'incoronano, id est gl'incornano il capo. E quelle quanto son
più alte ed eminenti, tanto fanno più maestrale representazione, e son segno
di maggior grandezza: onde è geloso un duca che un conte o marchese mostre una
corona cossì grande come lui; maggiore conviene al re, massima a l'imperatore,
triplicata tocca al papa, come a quello sommo patriarca che ne deve aver per lui
e per li compagni. Li pontefici ancora sempre hanno adoperata la mitra acuminata
in due corna; il duce di Venezia compare con un corno a mezza testa; il gran
Turco da fuor del turbante lo fa uscir alto e diritto in forma rotonda
piramidale: il che tutto è fatto per donar testimonio della sua grandezza, con
accomodarsi con la meglior arte questa bella parte in testa, la quale alle
bestie ha conceduta la natura: voglio dir, con mostrar di aver de la bestia.
Questo nessuno avanti, né alcuno da poi ha possuto più efficacemente
esprimere, che il duca e legislatore del popolo giudeo. Quel Mosè dico, che in
tutte le scienze de gli Egizii usci addottorato da la corte di Faraone; quello
che nella moltitudine di segni vinse tutti que' periti nella maggia; in che modo
mostrò l'eccellenza sua, per esser divino legato a quel popolo, e representator
de l'autorità del dio d'Ebrei? vi par che, calando giù del monte Sina con le
gran tavole, venesse in forma d'un uomo puro, essendo che si presentò venerando
con un paio di gran corna, che su la fronte gli ramificavano? Avanti la cui
maestral presenza mancando il cuore di quel popolo errante ch'il mirava,
bisognò che con un velo si cuoprisse il volto; il che pure fu fatto da lui per
dignità e per non far troppo familiare quel divino e più che umano aspetto.
45 \ SAUL.\ Cossì odo ch'il gran Turco, quando
non porge familiare udienza, usa il velo avanti la sua persona. Cossì ho visto
io gli Religiosi di Castello in Genova mostrar per breve tempo e far baciar la
velata coda, dicendo: - Non toccate, baciate; questa è la santa reliquia di
quella benedetta asina, che fu fatta degna di portar il nostro Dio dal monte
Oliveto a Jerosolima. Adoratela, baciatela, porgete limosina: Centuplum
accipietis, et vitam aeternam possidebitis.
46 \ SOFIA\ Lasciamo questo, e venemo al nostro
proposito. Per la legge e decreto di quella nazion eletta nessuno si fa re se
non con dargli de l'oglio con un corno in testa; e dal sacrato corno è ordine
che esca quel regio liquore, perché appaia quanta sia la dignità de le corna,
le quali conservano, effondeno e parturiscono la regia maestade. Or se un pezzo,
una reliquia d'una bestia morta è in tanta riputazione, che devi pensar d'una
bestia viva e tutta intiera, che non ha le corna improntate, ma per eterno
beneficio di natura? Séguito il proposito secondo la mosaica autoritade, la
quale nella legge e scrittura sempre non usa altre minacce che questa, o simili
a questa: Ecco, popolo, mio, che dice il nostro Giova. Spuntarò il vostro
corno, o transgressori di miei precetti, o prevaricatori della mia legge,
fiaccarò, dileguarò le vostre corna. Ribaldi e scelerati, vi scornarò ben io.
Cossì per l'ordinario non usa altre promesse che questa, o simili a questa: Te
incornarò certo; per mia fede, per me stesso ti giuro che ti adaptarò le
corna, popolo mio eletto. Popolo mio fedele, abbi per fermo che non arranno male
le tue corna; di quelle non si scemarà nulla. Generazione santa, figli
benedetti, inalzarò, magnificarò, sublimarò le corna vostre, perché denno
essere exaltate le corna de' giusti. Da onde appare aperto, che ne le corna
consiste il splendor, l'eccellenza e potestade, perché son cose da eroi, bestie
e dei.
47 \ SAUL.\ Onde aviene che è messo in
consuetudine di chiamar cornuto uno, per dirlo uomo senza riputazione, o che
abbia perso qualche riputata specie di onore?
48 \ SOFIA\ Onde aviene che alcuni ignoranti
porcini alle volte ti chiamano filosofo (quale, se è vero, è più onorato
titolo che possa aver un uomo), e te lo dicono come per dirti ingiuria o per
vituperarti?
49 \ SAUL.\ Da certa invidia.
50 \ SOFIA\ Onde aviene che alcun pazzo e
stolto tal volta da te vien chiamato filosofo?
51 \ SAUL.\ Da certa ironia.
52 \ SOFIA\ Cossì poi intendere che, o per
certa invidia o per certa ironia, aviene che quei che sono, o che non sono
onorati e magnifici, vegnono nomati cornuti. Conchiuse dunque Iside per il
Capricorno, che, per aver egli le corna e per esser egli una bestia, ed oltre
aver fatti dovenir gli dei cornuti e bestie (il che contiene in sé gran
dottrina e giudicio di cose naturali e magiche circa le diverse raggioni con le
quali la forma e sustanza divina o s'immerge, o si explica, o si condona per
tutti, con tutti e da tutti suggetti), è un dio non solamente celeste, ma, ed
oltre, degno di maggiore e meglior piazza che non è questa. E per quello che
gli più vili idolatri, anzi gli vilissimi de la Grecia e de l'altre parti del
mondo, improperano a gli Egizii, risponde per quel che è detto, che se pur si
commette indignità nel culto, il quale è necessario in qualche maniera; e se
peccano quei che per molte commoditadi e necessitadi, in forme de vive bestie,
vive piante, vivi astri, ed inspiritate statue di pietre e di metallo (nelle
quali non possiamo dir che non sia quello che è più intimo a tutte le cose,
che la propria forma di esse), adororno la deità una e semplice ed absoluta in
se stessa, multiforme ed omniforme in tutte le cose; quanto incomparabilmente
peggiore è quel culto, e più vilmente peccano quei che senza commodità e
necessità alcuna, anzi fuor d'ogni raggione e dignità, sotto abiti e titoli ed
insegne divine adorano le bestie e peggiori che bestie?
53 Gli Egizii, come sanno i sapienti, da queste
forme naturali esteriori di bestie e piante vive ascendevano e (come mostrano
gli lor successi) penetravano alla divinità; ma loro da gli abbiti magnifici
esterni de gli lor idoli (ad altri accomodandogli al capo gli dorati raggi
apollineschi, ad altri la grazia di Cerere, ad altri la purità di Diana, ad
altri l'aquila, ad altri il scettro e folgore di Giove in mano) descendeno poi
ad adorar in sustanza per dei quei che a pena hanno tanto spirito quanto le
nostre bestie; perché finalmente la loro adorazione si termina ad uomini
mortali, dappoco, infami, stolti, vituperosi, fanatici, disonorati, infortunati,
inspirati da genii perversi, senza ingegno, senza facundia e senza virtude
alcuna; i quali vivi non valsero per sé, e non è possibile che morti vagliano
per sé o per altro. E benché per lor mezzo è tanto instercorata ed insporcata
la dignità del geno umano, che in loco di scienze è imbibito de ignoranze più
che bestiali, onde è ridotto ad esser governato senza vere giustizie civili,
tutto è avenuto non per prudenza loro, ma perché il fato dona il suo tempo e
vicissitudine a le tenebre. E soggionse queste paroli, voltata a Giove: - E mi
dolgo di voi, o padre, per molte bestie, che, per esser bestie, mi par che facci
indegne del cielo, essendo però, come ho mostrato, tanta la dignità di quelle.
- A cui il summitonante: - Te inganni, figlia, che per esser bestie. Se gli
altri dei sdegnassero l'esser bestie, non sarrebono accadute tante e tali
metamorfosi. Però non possendo, né dovendovi rimanere in ipostatica sustanza,
voglio che vi rimagnano in ritratto, il qual sia significativo, indice e figura
de le virtudi che in que' luoghi si stabiliscono. E quantunque alcune hanno
espressa significazione di vizio, per essere animali atti alla vendetta contra
la specie umana, non sono però senza virtù divina in altro modo
favorevolissime a quella medesima ed altre, perché nulla è absolutamente, ma,
per certo rispetto, malo, come l'Orsa, il Scorpione ed altri: questo non voglio
che ripugne al proposito, ma lo comporte nel modo che hai possuto aver visto e
vedrai. Però non curo che la Verità sia sotto figura e nome de l'Orsa, la
Magnanimità sotto quel de l'Aquila, la Filantropia sotto quel del Delfino, e
cossì de gli altri. E per venire alla proposta del tuo Capricorno, tu sai quel
ch'ho detto da principio, quando feci l'enumerazione di quei che doveano lasciar
il cielo; e credo che ti ricordi lui essere uno de gli riservati. Godasi dunque
la sua sedia, tanto per le raggioni da te apportate, quanto per altre molte non
minori, che apportar si potrebono. E con lui, per degni rispetti, soggiorne la
Libertà di spirito a cui talvolta amministra il Monachismo (non dico quello de
cocchiaroni), l'Eremo, la Solitudine, che sogliono parturir quel divino sigillo
ch'è la buona Contrazione.
-54 Appresso dimandò Teti di quel che volea
far de l'Aquario. -Vada, rispose Giove, a trovar gli uomini, e sciôrgli quella
questione del diluvio, e dechiarare come quello ha possuto essere generale,
perché s'apersero tutte le cataratte del cielo; e faccia che non si creda oltre
quello esser stato particolare, perché è impossibile che l'acqua del mare e
fiumi possa gli ambi doi emisferi ricuoprire, anzi né pur un medesimo citra ed
oltre i Tropici o l'Equinoziale. Appresso faccia intendere come questa
riparazion del geno traghiuttito da l'onde fu da l'Olimpo nostro de la Grecia, e
non da gli monti di Armenia, o dal Mongibello di Sicilia, o da qualch'altra
parte. Oltre che le generazioni de gli uomini si trovano in diversi continenti
non a modo con cui si trovano tante altre specie d'animali usciti dal materno
grembo de la natura, ma per forza di transfretazione e virtù di navigazione,
perché, verbigrazia, son stati condotti da quelle navi che furono avanti che si
trovasse la prima; perché (lascio altre maladette raggioni da canto, quanto a
gli Greci, Druidi e tavole di Mercurio, che contano più di vinti mila anni non
dico de lunari, come dicono certi magri glosatori, ma di que' rotondi simili a
l'annello, che si computano da un inverno a l'altro, da una primavera a l'altra,
da uno autunno a l'altro, da una staggione a l'altra medesima) è frescamente
scuoperta una nuova parte de la Terra che chiamano Nuovo Mondo, dove hanno
memoriali di diece mila anni e più, gli quali sono, come vi dico, integri e
rotondi, perché gli loro quattro mesi son le quattro staggioni, e perché,
quando gli anni eran divisi in più pochi, erano anco divisi in più grandi
mesi. Ma lui, per evitar gl'inconvenienti che possete da per voi medesimi
considerare, vada destramente a mantenir questa credenza, trovando qualche bel
modo di accomodar quelli anni; e quello che non può glosare ed iscusare,
audacemente nieghi, dicendo che si deve porgere più fede a gli dei (de quali
portarà le lettere patente e bolle) che a gli uomini, li quali tutti son
buggiardi. - Qua aggionse Momo dicendo: - E 'l mi par meglio di scusarla in
questa maniera con dire, verbigrazia, che questi de la terra nova non son parte
de la umana generazione, perché non sono uomini, benché in membra, figura e
cervello siano molto simili a essi; ed in molte circonstanze si mostrano più
savii ed in trattar gli lor dei manco ignoranti. - Rispose Mercurio che questa
era troppo dura a digerire. - Mi par che quanto appartiene alle memorie di
tempi, si può facilmente provedere con far maggiori questi, o minori quelli
anni; ma penso che sia conveniente trovar alcuna gentil raggione, per qualche
soffio di vento, o per qualche trasporto di balene ch'abbiano inghiuttite
persone di un paese, e quelle vive andate a vomire in altre parti ed altri
continenti. Altrimente noi dei greci saremo confusi; perché si dirà che tu,
Giove, per mezzo di Deucalione non sei riparator de gli uomini tutti, ma di
certa parte solamente. - Di questo e del modo di provedere si parlarà a più
bell'agio, - disse Giove. Aggiunse alla commissione di costui, che debba egli
definire circa la controversia se lui è stato sin ora in cielo per un padre di
Greci, o di Ebrei, o di Egizii o di altri, e se ha nome Deucalione, o Noemo, o
Otrio, o Osiri. Finalmente determine se lui è quel patriarca Noè, che,
imbreaco per l'amor di vino, mostrava il principio organico della lor
generazione a' figli, per fargli intendere insieme insieme dove consistea il
principio ristorativo di quella generazione assorbita ed abissata da l'onde del
gran cataclismo, quando doi uomini maschii ritrogradando gittâro gli panni
sopra il discuoperto seno del padre; o pur è quel tessalo Deucalione, a cui,
insieme con Pirra sua consorte, fu mostrato ne le pietre il principio della
umana riparazione; là onde de doi uomini, un maschio e una femina,
retrogradando le gittavano a dietrovia al discuoperto seno della terra madre? Ed
insegne di questi doi modi de dire (perché non possono esser l'uno e l'altro
istoria) qual sia la favola e qual sia la istoria; e se sono ambi doi favole,
qual sia la madre e quale sia la figlia; e veda se potrà ridurle a metafora di
qualche veritade degna d'essere occolta. Ma non inferisca che la sufficienza
della magia caldaica sia uscita e derive da la cabala giudaica; perché gli
Ebrei son convitti per escremento de l'Egitto, e mai è chi abbia possuto
fingere con qualche verisimilitudine, che gli Egizii abbiano preso qualche degno
o indegno principio da quelli. Onde noi Greci conoscemo per parenti de le nostre
favole, metafore e dottrine la gran monarchia de le lettere e nobilitade,
Egitto, e non quella generazione la quale mai ebbe un palmo di terra che fusse
naturalmente o per giustizia civile il suo; onde a sufficienza si può
conchiudere che non sono naturalmente, come né per lunga violenza di fortuna
mai furono, parte del mondo.
55 \ SAUL.\ Questo, o Sofia, sia detto da Giove
per invidia; perché quindi degnamente son detti e si dicono santi, per essere
più tosto generazion celeste e divina che terrestre ed umana; e non avendo
degna parte di questo mondo, vegnono approvati da gli angeli eredi di
quell'altro, il quale tanto è più degno quanto non è uomo, o grande o
picciolo, o savio o stolto, che per forza o di elezione o di fato non possa
acquistarlo, e certissimamente tenerlo per suo.
56 \ SOFIA\ Stiamo in proposito, o Saulino.
57 \ SAUL.\ Or dite, che cosa volse Giove che
succedesse a quella piazza?
58 \ SOFIA\ La Temperanza, la Civilità, la
Urbanitade, mandando giù la Intemperanza, l'Eccesso, l'Asprezza, Selvaticia,
Barbaria.
59 \ SAUL.\ Come, o Sofia, la Temperanza
ottiene medesima sedia con l'Urbanitade?
60 \ SOFIA\ Come la madre può coabitar con la
figlia; perché per l'Intemperanza circa gli affetti sensuali ed intellettuali
si dissolveno, disordinano, disperdeno ed indiluviano le fameglie, le
republiche, le civili conversazioni ed il mondo; la Temperanza è quella che
riforma il tutto, come ti farò intendere, quando andaremo visitando queste
stanze.
61 \ SAUL.\ Sta bene.
62 \ SOFIA\ Or, per venire alli Pesci, si alzò
in piedi la bella madre di Cupido, e disse: - Vi raccomando con tutto il mio
core (per il ben che mi volete ed amor che mi portate, o dei) li miei padrini,
li quali al lido del fiume Eufrate versâro quel grand'ovo che covato dalla
colomba ischiuse la mia misericordia. - Tornino dunque là dove erano, disse
Giove; ed assai li baste di esser stati qua tanto tempo, e che se gli confirme
il privilegio che gli Siri non le possano mangiar senza essere iscomunicati; e
guardinsi che di nuovo non vegna qualche condottiero Mercurio, che, togliendoli
le ova interiori, forme qualche metafora di nuova misericordia per sanar il mal
de gli occhi di qualche cieco; perché non voglio che Cupido apra gli occhi,
atteso che, se cieco tira tanto diritto ed impiaga tanti quanti vuole, che
pensate farrebe, se avesse gli occhi tersi? Vadino dunque là e stiano in
cervello per quel ch'ho detto. Vedete come da per se medesimo il Silenzio, la
Taciturnità, in forma con cui apparve ne l'Egitto e Grecia il simulacro di
Pixide, con l'indice apposto alla bocca, va a prendere il suo loco. Or
lasciatelo passar, non gli parlate, non gli dimandate nulla. Vedete come da
quell'altro canto si spicca la Ciarla, la Garrulità, la Loquacità con altri
servi, damigelle ed assistenti. - Soggionse Momo: - Tolgasi ancora alla mal'ora
quella chioma detta gli Crini di Berenice, e sia portata da quel Tessalo a
vendere in terra a qualche calva principessa. - Bene! - rispose Giove. - Or
vedete purgato il spacio del signifero, dove son prese trecento quaranta sei
stelle notabili: cinque massime, nove grandi, sessanta quattro mediocri, cento
trentatré picciole, centocinque minori, vintisette minime, tre nebbiose. –
2 - Qua, rispose Momo: - Lasciate proponere a
me, o dei. Ne è cascato, come è proverbio in Napoli, il maccarone dentro il
formaggio. Questo, perché sa far de maraviglie, e, come Nettuno sa, può
caminar sopra l'onde del mare senza infossarsi, senza bagnarsi gli piedi; e con
questo consequentemente potrà far molte altre belle gentilezze; mandiamolo tra
gli uomini; e facciamo che gli done ad intendere tutto quello che ne pare e
piace, facendogli credere che il bianco è nero, che l'intelletto umano, dove li
par meglio vedere, è una cecità; e ciò che secondo la raggione pare
eccellente, buono ed ottimo, è vile, scelerato ed estremamente malo; che la
natura è una puttana bagassa, che la legge naturale è una ribaldaria; che la
natura e divinità non possono concorrere in uno medesimo buono fine, e che la
giustizia de l'una non è subordinata alla giustizia de l'altra, ma son cose
contrarie, come le tenebre e la luce; che la divinità tutta è madre di Greci,
ed è come nemica matrigna de l'altre generazioni; onde nessuno può esser grato
a' dei altrimente che grechizando, idest facendosi Greco: perché il più
gran scelerato e poltrone ch'abbia la Grecia, per essere appartenente alla
generazione de gli dei, è incomparabilmente megliore che il più giusto e
magnanimo ch'abbia possuto uscir da Roma in tempo che fu republica, e da
qualsivoglia altra generazione, quantunque meglior in costumi, scienze,
fortezza, giudicio, bellezza ed autorità. Perché questi son doni naturali e
spreggiati da gli dei, e lasciati a quelli che non son capaci de più grandi
privilegii: cioè di que' sopranaturali che dona la divinità, come questo di
saltar sopra l'acqui, di far ballare i granchi, di far fare capriole a' zoppi,
far vedere le talpe senza occhiali ed altre belle galanterie innumerabili.
Persuaderà con questo che la filosofia, ogni contemplazione ed ogni magia che
possa fargli simili a noi, non sono altro che pazzie; che ogni atto eroico non
è altro che vegliaccaria; e che la ignoranza è la più bella scienza del
mondo, perché s'acquista senza fatica e non rende l'animo affetto di
melancolia. Con questo forse potrà richiamare e ristorar il culto ed onore
ch'abbiamo perduto, ed oltre avanzarlo, facendo che gli nostri mascalzoni siano
stimati dei per esserno o Greci o ingrecati. Ma con timore, o dei, io vi dono
questo conseglio; perché qualche mosca mi susurra ne l'orecchio: atteso che
potrebbe essere che costui al fine trovandosi la caccia in mano, non la tegna
per lui, dicendo e facendoli oltre credere, che il gran Giove non è Giove, ma
che Orione è Giove; e che li dei tutti non sono altro che chimere e fantasie.
Per tanto mi par pure convenevole che non permettiamo, che per fas et nefas,
come dicono, voglia far tante destrezze e demostranze, per quante possa farsi
nostro superiore in riputazione.
-3 Qua rispose la savia Minerva: - Non so, o
Momo, con che senso tu dici queste paroli, doni questi consegli, metti in campo
queste cautele. Penso ch'il parlar tuo è ironico; perché non ti stimo tanto
pazzo che possi pensar che gli dei mendicano con queste povertadi la riputazione
appresso gli uomini; e, quanto a questi impostori, che la falsa riputazion loro,
la quale è fondata sopra l'ignoranza e bestialità de chiunque le riputa e
stima, sia lor onore più presto che confirmazione della loro indignità e sommo
vituperio. Importa a l'occhio della divinità e presidente verità, che uno sia
buono e degno, benché nessuno de mortali lo conosca; ma che un altro falsamente
venesse sino ad essere stimato dio da tutti mortali, per ciò non si aggiongerà
dignità a lui, perché solamente vien fatto dal fato instrumento ed indice per
cui si vegga la tanto maggiore indignità e pazzia di que' tutti, che lo
stimano, quanto colui è più vile, ignobile ed abietto. Se dunque si prenda non
solamente Orione il quale è Greco ed uomo di qualche preggio; ma uno della più
indegna e fracida generazion del mondo, di più bassa e sporca natura e spirito,
che sia adorato per Giove: certo mai verrà esso onorato in Giove, né Giove
spreggiato in lui: atteso che egli mascherato ed incognito ottiene quella piazza
o solio, ma più tosto altri verranno vilipesi e vituperati in lui. Mai dunque
potrà un forfante essere capace di onore per questo, che serve per scimia e
beffa di ciechi mortali con il ministero de genii nemici..
4 Or sapete, disse Giove, quel che definisco di
costui, per evitar ogni possibile futuro scandalo? Voglio che vada via a basso;
e comando che perda tutta la virtù di far de bagattelle, imposture, destrezze,
gentilezze ed altre maraviglie che non serveno di nulla; perché con quello non
voglio che possa venire a destruggere quel tanto di eccellenza e dignità che si
trova e consiste nelle cose necessarie alla republica del mondo; il qual veggio
quanto sia facile ad essere ingannato, e per conseguenza inclinato alle pazzie e
prono ad ogni corrozione ed indignità. Però non voglio che la nostra
riputazione consista nella discrezione di costui o altro simile; perché, se
pazzo è un re, il quale a un suo capitano e generoso duca dona tanta potestà
ed autorità per quanta quello se gli possa far superiore (il che può essere
senza pregiudicio del regno, il quale potrà cossì bene, e forse meglio, esser
governato da questo che da quello); quanto più sarà insensato e degno di
correttore e tutore, se ponesse o lasciasse nella medesima autorità un uomo
abietto, vile ed ignorante, per cui vegna ad essere invilito, strapazzato,
confuso e messo sotto sopra il tutto; essendo per costui posta la ignoranza in
consuetudine di scienza, la nobilità in dispreggio e la villania in
riputazione!
-5 - Vada presto, disse Minerva; ed in quel
spacio succeda la Industria, l'Esercizio bellico ed Arte militare; per cui si
mantegna la patria pace ed autoritade; si appugneno, vincano e riducano a vita
civile ed umana conversazione gli barbari; si annulleno gli culti, religioni,
sacrificii e leggi inumane, porcine, salvatiche e bestiali; perché ad effettuar
questo tal volta per la moltitudine de' vili ignoranti e scelerati, la quale
prevale a' nobili sapienti e veramente buoni, che son pochi, non basta la mia
sapienza senza la punta de la mia lancia, per quanto cotali ribaldarie son
radicate, germogliate e moltiplicate al mondo. - A cui rispose Giove: - Basta,
basta, figlia mia, la sapienza contra queste ultime cose, che da per sé
invecchiano, cascano, son vorate e digerite dal tempo, come cose di fragilissimo
fondamento. - Ma in questo mentre, disse Pallade, bisogna resistere e ripugnare,
a fin che con la violenza non ne destruggano prima che le riformiamo.
-6 - Venemo, disse Giove, al fiume Eridano; il
quale non so come trattarlo; e che è in terra e che è in cielo, mentre le
altre cose, de le quali siamo in proposito, facendosi in cielo, lasciâro la
terra. Ma questo e che è qua, e che è là; e che è dentro, e che è fuori; e
che è alto, e che è basso; e che ha del celeste, e che ha del terrestre; e che
è là, ne l'Italia, e che è qua, nella region australe; or non mi par cosa a
cui bisogna donare, ma a cui convegna che sia tolto qualche luogo. - Anzi, disse
Momo, o Padre, mi par cosa degna (poi che ha questa proprietade l'Eridano fiume
di posser medesimo esser suppositale- e personalmente in più parti) che lo
facciamo essere ovunque sarà imaginato, nominato, chiamato e riverito: il che
tutto si può far con pochissima spesa, senza interesse alcuno, e forse non
senza buon guadagno. Ma sia di tal sorte, che chi mangiarà de suoi pesci
imaginati, nominati, chiamati e riveriti, sia come, verbigrazia, non mangiasse;
chi similmente beverà de le sue acqui, sia pur come colui che non ha da bere;
chi parimente l'arà dentro del cervello, sia pur come colui che l'ha vacante e
vodo; chi di medesima maniera arà la compagnia de le sue Nereidi e Ninfe, non
sia men solo che colui che è anco fuor di se stesso. - Bene! disse Giove; qua
non è pregiudizio alcuno, atteso che per costui non averrà che gli altri
rimagnano senza cibo, senza da bere, senza che gli reste qualche cosa in
cervello e senza compagni, per essere quel lor mangiare, bere, averlo in
cervello e tenere in compagnia, in imaginazione, in nome, in voto, in riverenza;
però sia, come Momo propone, e veggio che gli altri confirmano. Sia dunque
l'Eridano in cielo, ma non altrimente che per credito ed imaginazione. Là onde
non impedisca, che in quel medesimo luogo veramente vi possa essere qualch'altra
cosa di cui in un altro di questi prossimi giorni definiremo; perché bisogna
pensare sopra di questa sedia, come sopra quella de l'Orsa maggiore.
7 Provediamo ora a la Lepre, la qual voglio che
sia stata tipo del timore per la Contemplazion de la morte; ed anco, per quanto
si può, de la Speranza e Confidenza, la quale è contraria al Timore: perché
in certo modo l'una e l'altra son virtudi, o almeno materia di quelle, se son
figlie della Considerazione e serveno a la Prudenza. Ma il vano Timore,
Codardiggia e Desperazione vadano insieme con la Lepre a basso a caggionare il
vero inferno ed Orco de le pene a gli animi stupidi ed ignoranti. Ivi non sia
luogo tanto occolto in cui non entre questa falsa Suspettazione ed il cieco
Spavento de la morte, aprendosi la porta d'ogni rimossa stanza mediante gli
falsi pensieri che la stolta Fede ed orba Credulitade parturisce, nutrisce ed
allieva; ma non già (se non con vane forze) s'accoste dove l'inespugnabil muro
della filosofica contemplazion vera circonda, dove la quiete de la vita sta
fortificata e posta in alto, dove è aperta la verità, dove è chiara la
necessitade de l'eternità d'ogni sustanza; dove non si dee temer d'altro che
d'esser spogliato dall'umana perfezione e giustizia, che consiste nella
conformità de la natura superiore e non errante. - Qua disse Momo: - Intendo, o
Giove, che chi mangia la lepre, si fa bello; facciamo dunque che chiunque
mangiarà di questo animal celeste, o maschio o femina ch'egli sia, da brutto
dovegna formoso, da disgraziato grazioso, da cosa feda e dispiacevole piacevole
e gentile; e fia beato il ventre e stomaco che ne cape, e digerisce, e si
converte in essa. -Sì; ma non voglio, disse Diana, che de la mia lepre si perda
la semenza. - Oh, io ti dirò, disse Momo, un modo con cui tutto il mondo ne
potrà e mangiare e bevere senza che la sia mangiata e bevuta, senza che sia
dente che la tocche, mano che la palpe, occhio che la vegga e forse ancora luogo
che la capisca.
8 - Di questo, disse Giove, ne raggionarete
poi. Ora venendo a questo Cagnazzo che gli corre appresso, mentre per tante
centinaia d'anni l'apprende in spirito, e per tema di perdere la materia d'andar
più cacciando, mai viene quell'ora che la prenda in veritade, e tanto tempo gli
va latrando a dietro, fingendosi le risposte. - Di questo mi son lamentato
sempre, o padre, disse Momo, che hai mal dispensato, facendo che quel can
mastino che fu messo a perseguitar la tebana volpe, l'hai fatto montare al
cielo, come fusse un levriero alla coda d'una lepre, facendo rimaner là giù la
volpe trasmutata in sasso. - Quod scripsi, scripsi, disse Giove. - E
questo, disse Momo, è il male: che Giove ha la sua volontà per giustizia, ed
il suo fatto per fatal decreto, per far conoscere ch'egli ave absoluta
autoritade, e per non donar a credere ch'egli confesse di posser fare, o aver
fatto errore, come soglion fare altri dei, che, per aver qualche ramo de
discrezione, tal volta si penteno, si ritrattano e corregono. - Ed ora, disse
Giove, che pensi che sia quel che facciamo adesso, tu, che da un particolare
vuoi inferir la sentenza generale? -Si escusò Momo che lui inferiva in generale
in ispecie, cioè in cose simili; non in genere, cioè in tutte le cose.
9 \ SAUL.\ La chiosa fu buona, perché non è
il simile dove è altrimente.
10 \ SOFIA\ Ma soggionse: - Però, padre santo,
poi che hai tanta potestà che puoi fare di terra cielo, di pietre pane e di
pane qualch'altra cosa, finalmente puoi fare sin a quel che non è, né può
esser fatto; fa' che l'arte di cacciatori, idest la Venazione, come è
una maestrale insania, una regia pazzia ed uno imperial furore, vegna ad essere
una virtù, una religione, una santità; e che grande sia onore a uno per esser
carnefice, ammazzando, scorticando, squartando e sbudellando una bestia
salvaggia. Di ciò benché convenerebbe a Diana di priegarti, tutta via io la
dimando, per esser talvolta cosa onesta che, in caso d'impetrar beneficio e
dignitade, più tosto s'interpona un altro, che quel medesimo, a chi spetta,
vegna per se medesimo a presentarsi, introdursi e proporsi: atteso che con suo
maggior scorno gli verrebe negato, e con minor suo decoro gli sarrebe conceduto
quel che cerca. - Rispose Giove: -Benché, come l'esser beccaio debba essere
stimata un'arte ed esercizio più vile che non è l'esser boia (come è messo in
consuetudine in certe parti d'Alemagna), perché questa si maneggia pure in
contrattar membri umani, e talvolta administrando alla giustizia; e quello ne
gli membri d'una povera bestia, sempre amministrando alla disordinata gola, a
cui non basta il cibo ordinato dalla natura, più conveniente alla complessione
e vita dell'uomo (lascio l'altre più degne raggione da canto); cossì l'esser
cacciatore è uno esercizio ed arte non meno ignobile e vile che l'esser
beccaio; come non ha minor raggion di bestia la salvatica fiera che il domestico
e campestre animale. Tutta volta mi pare e piace, per non incusare, ed a fine
che non vegna incusata di vituperio la mia figlia Diana, ordino che l'essere
carnefice d'uomini sia cosa infame; l'esser beccaio, idest manigoldo
d'animali domestici, sia cosa vile; ma l'esser boia di bestie salvatiche sia
onore, riputazion buona e gloria. -Ordine, disse Momo, conveniente non a Giove
quando è stazionario o diretto, ma quando è retrogrado. Mi maravigliavo io,
quando vedevo questi sacerdoti de Diana, dopo aver ucciso un daino, una
capriola, un cervio, un porco cinghiale o qualch'altro di questa specie,
inginocchiarsi in terra, snudarsi il capo, alzar verso gli astri le palme; e poi
con la scimitarra propria troncargli la testa, appresso cavargli il cuore prima
che toccar gli altri membri; e cossì successivamente con un culto divino
adoprando il picciolo coltello, procedere di mano in mano a gli altri ceremoni;
onde appaia con quanta religione e pie circonstanze sa far la bestia lui solo
che non admette compagno a questo affare, ma lascia gli altri con certa
riverenza e finta maraviglia star in circa a remirare. E mentre lui è tra gli
altri l'unico manigoldo, si stima essere a punto quel sommo sacerdote a cui solo
era lecito di portare il Semammeforasso, e ponere il piè entro in Santasantoro.
Ma il male è che sovente accade che, mentre questi Atteoni vanno perseguitando
gli cervi del deserto, vegnono dalla lor Diana ad esser convertiti in cervio
domestico, con quel rito magico soffiandogli al viso, e gittandogli l'acqua de
la fonte a dosso, e dicendo tre volte:
Si videbas feram,
Tu currebas cum ea,
Me, quae iam tecum eram,
Spectes in Galilea;
over, incantandolo per volgare, in questa altra maniera:
Lasciaste la tua stanza
E la bestia seguitaste;
Con tanta diligenza
A dietro gli corresti,
Che medesimo in sustanza
Compagno te gli festi. Amen.
11 Cossì dunque, conchiuse Giove, io voglio
che la venazione sia una virtù; atteso a quel che disse Iside in proposito de
le bestie; ed oltre, perché con tanto diligente vigilanza, con sì religioso
culto s'incerviano, incinghialano, inferiscono ed imbestialano. Sia, dico,
virtù tanto eroica che quando un prencipe perseguita una dama, una lepre, un
cervio o altra fiera, faccia conto che le nemiche legioni gli corrano avanti;
quando arà preso qualche cosa, sia a punto in quel pensiero, come avesse alle
mani cattivo quel prencipe o tiranno di cui più teme: onde non senza raggione
vegna a far que' bei ceremoni, rendere quelle calde grazie e porgere al cielo
quelle belle e sacrosante bagattelle. - Ben provisto per il luogo del cane
cacciatore, disse Momo; il quale sarà bene d'inviarlo in Corsica o in
Inghilterra. Ed in suo luogo succeda la Predicazione della verità, il
Tirannicidio, il Zelo de la patria e di cose domestiche, la Vigilanza, la
Custodia e Cura della republica. Or che farremo, disse, de la Cagnolina? -
Allora s'alzò la blanda Venere e la dimandò in grazia a gli dei, perché
qualche volta per passatempo suo e de le sue damigelle, con quel vezzoso
rimenamento de la persona, con que' baciotti e con quel gentil applauso di coda,
a tempo de le lor vacanze, gli scherze in seno. - Bene, disse Giove; ma vedi,
figlia, che voglio che seco si parta l'Assentazione, l'Adulazione tanto amate,
quanto perpetuamente odiati Zelo e Dispreggio; perché in quel loco voglio che
sia la Domestichezza, Comità, Placabilità, Gratitudine, semplice Ossequio ed
amorevole Servitude. - Fate, rispose la bella dea, del resto quel che vi piace;
perché senza queste cagnoline non si può vivere felicemente in corte, come in
quelle medesime non si può virtuosamente perseverare senza coteste virtudi che
tu racconti.
-12 E non sì tosto ebbe chiusa la bocca la dea
di Pafo, che Minerva l'aperse dicendo: - Or, a che fine destinate la mia bella
manifattura, quel palaggio vagabondo, quella stanza mobile, quella bottega e
quella fiera errante, quella vera balena che gli traghiuttiti corpi vivi e sani
le va a vomire ne gli estremi lidi de le opposte, contrarie e diverse margini
del mare? - Vada, risposero molti dei, con l'abominevole Avarizia, con la vile e
precipitosa Mercatura, col desperato Piratismo, Predazione, Inganno, Usura ed
altre scelerate serve, ministre e circonstanti di costoro. Ed ivi risieda la
Liberalità, la Munificenza, la Nobiltà di spirito, la Comunicazione, Officio
ed altri degni ministri e servi loro. - Bisogna, disse Minerva, che sia
conceduta ed appropriata a qualcuno. - Fa' di quella ciò che a te piace, disse
Giove. - Or dunque, disse lei, serva a qualche sollecito Portughese, o curioso
ed avaro Britanno, acciò con essa vada a discuoprir altre terre ed altre
regioni verso l'India occidentale, dove il capo aguzzo Genovese non ha
discuoperto, e non ha messo i piedi il tenace e stiptico Spagnolo; e cossì
successivamente serva per l'avenire al più curioso, sollecito e diligente
investigator de nuovi continenti e terre.
-13 Finito avendo il suo proposito Minerva,
cominciò a farsi udir in questo tenore il triste, restio e maninconioso
Saturno: - Mi pare, o dei, che tra gli riservati per rimaner in cielo, con gli
Asinelli, Capricorno e Vergine, sia questa Idra, questo antico e gran serpente
che dignissimamente ottiene la patria celeste, come quello, che ne revendicò da
le onte de l'audace e curioso Prometeo, non tanto amico di nostra gloria, quanto
troppo affezionato a gli uomini, quali volea che per privilegio e prorogativa de
l'immortalitade ne fussero a fatto simili ed uguali. Questo fu quel sagace ed
accorto animale, prudente, versuto, callido, astuto e fino più che tutti gli
altri che la terra produca; che, quando Prometeo ebbe subornato il mio figlio,
vostro fratello e padre Giove, a donargli quelle otre o barilli pieni di vita
eterna, accadde che, avendone cargato un asino, mettendoli sopra quella bestia
per condurli alla region de gli uomini l'asino (perché per qualche tratto di
camino andava avanti al suo agasone) cotto dal sole, bruggiato dal caldo,
arefatto da la fatica, sentendosi gli pulmoni disseccati da la sete, venne
invitato da costui al fonte; dove (per esser quello alquanto cavo e basso, di
maniera che l'acqua per doi o tre palmi era lontana da l'equalità de la terra)
bisognò che l'asino si curvasse e si piegasse tanto, per toccar la liquida
superficie con le labbia, che vennero a cascargli dal dorso gli barilli, si
ruppero gli otricelli, si versò la vita eterna, e tutta venne a disperdersi per
terra e quel pantano che facea corona con l'erbe al fonte. Costui se ne raccolse
destramente qualche particella per lui: Prometeo rimase confuso, gli uomini
sotto la triste condizione della mortalità, e l'asino, perpetuo ludibrio e
nemico di questi, condannato dall'umana generazione, consenziente Giove, ad
eterne fatiche e stenti, a pessimo cibo, che trovar si possa, ed a soldo di
spesse e grosse bastonate. Cossì, o dei, per caggion di costui aviene che gli
uomini facciano qualche caso de fatti nostri: perché vedete che ora, quantunque
siano mortali, conoscano la loro imbecillità ed aspettan pure di passare per le
nostre mani, e ne dispreggiano, si beffano de fatti nostri, e ne reputano come
scimie e gattimammoni; che farrebono se fussero similmente, come noi siamo,
immortali? - Assai bene definisce Saturno, -disse Giove. - Stiasi dunque,
risposero gli dei tutti. - Ma partasi, soggionse Giove, la Invidia, la
Maldicenza, la Insidia, Buggia, Convizio, Contenzione e Discordia; e le virtudi
contrarie rimagnano con la serpentina Sagacità e Cautela. Ma quel Corvo non
posso patire che sia là; però Apolline tolga quel suo divino, quel buon
servitore, quel sollecito ambasciatore e diligente novelliero e posta, che tanto
bene effettuò il comandamento de gli dei, quando aspettavano di tôrsi la sete
per la sedulità del costui serviggio. - Se vuol regnare, disse Apolline, vada
in Inghilterra dove ne trovarà le mille leggioni. Se vuol dimorar solitario,
stenda il suo volo al Montecorvino appresso Salerno. Se vuole andar, dove son
molti fichi, vada in Figonia, cioè, dove la riva bagna il Ligustico mare, da
Nizza in sino a Genova. Se è tirato da la gola de cadaveri, vadasi rimenando
per la Campania, o pur per il camino, che è tra Roma e Napoli, dove son messi
in quarti tanti ladroni che, da passo in passo, di carne fresca gli vengono
apparecchiati più spessi e suntuosi banchetti che possa ritrovar in altra parte
del mondo. - Soggionse Giove: -Vadano ancora a basso la Turpitudine, la
Derisione, il Dispreggio, la Loquacità, l'Impostura; ed in quella sedia succeda
la Magia, la Profezia ed ogni Divinazione e Prognosticazione, da gli effetti
giudicata buona ed utile.
-14 \ SAUL.\ Vorrei intendere il tuo parere, o
Sofia, circa la metafora del corvo; la qual primamente fu trovata e figurata in
Egitto, e poi in forma d'istoria è presa da gli Ebrei, con gli quali questa
scienza trasmigrò da Babilonia; ed in forma di favola è tolta da quei che
poetôrno in Grecia. Atteso che gli Ebrei dicono d'un corvo inviato da l'arca
per uomo, che si chiamava Noè, per veder se le acqui erano secche, a tempo che
gli uomini aveano tanto bevuto che crepôrno; e questo animale, rapito da la
gola de cadaveri, rimase, e non tornò mai dalla sua legazione e serviggio. Il
che pare tutto contrario a quello che raccontano gli Egipzii e Greci, che il
corvo sia stato inviato dal cielo da un dio, chiamato Apolline da questi, per
vedere se trovava de l'acqua, a tempo che gli dei si morevano quasi di sete; e
questo animale, rapito dalla gola de gli fichi, dimorò molti giorni, e tornò
tardi al fine, senza riportar l'acqua, e,.credo, avendo perso il vase.
15 \ SOFIA\ Non voglio al presente stendermi a
dechiararti la dotta metafora; ma questo sol ti voglio dire: che il dir di
Egizii e de Ebrei tutto va a rispondere a medesima metafora; perché dire che il
corvo si parta da l'arca, che è diece cubiti sullevata sopra il più alto monte
de la terra e che si parta dal cielo, mi par che sia quasi tutt'uno. E che gli
uomini, che si trovano in tal luogo e regione, siano chiamati dei, non mi par
troppo alieno; perché, per esser celesti, con poca fatica possono esser dei. E
che da questi sia detto Noè quell'uomo principale e da quegli altri Apolline,
facilmente s'accorda; perché la denominazione differente concorre in un
medesimo officio di regenerare: atteso che sol et homo generant hominem.
E che sia stato a tempo che gli uomini aveano troppo da bere, e che sia stato
quando gli dei si morevano di sete, certo è tutto medesimo ed uno: perché,
quando le cataratte del cielo s'apersero e si ruppero le cisterne del
firmamento, è cosa necessaria che si dovenesse a tale che gli terreni avessero
troppo da bere e gli celesti si morissero di sete. Che il corvo sia rimaso
allettato ed invaghito per gli fichi, e che quello stesso sia stato attratto
dalla gola de corpi morti, certamente viene tutto ad uno, se considerarai la
interpretazione di quello Giosefo, che sapea dechiarar gli sogni. Perché al
fornaio di Putifaro (che diceva aver avuto in visione, che portava in testa un
canestro de fichi, di cui venevano a mangiar gli ucelli) prenosticò che lui
dovea essere appiccato, e de le sue carni doveano mangiar i corvi e gli
avoltori. Che il corvo fusse tornato, ma tardi e senza profitto alcuno, è tutto
medesimo, non solamente con il dire che non tornò mai, ma anco con il dire che
mai fusse andato né mandato; perché non va, non fa, non torna chi va, fa e
torna in vano. E sogliamo dir ad un che viene tardi ed in vano, ancor che
riporte qualche cosa: Andaste, fratel mio, e non tornaste;
A Lucca me ti parse de vedere.
16 Ecco dunque, Saulino, come le metafore
egiziane senza contradizione alcuna possono essere ad altri istorie, ad altri
favole, ad altri figurati sentimenti.
17 \ SAUL.\ Questa tua concordanza di testi, se
al tutto non mi contenta, è vicina a contentarmi. Ma per ora seguitate
l'istoria principale.
18 \ SOFIA\ - Or che si farà de la Tazza?
dimandò Mercurio. De la giarra che si farà? - Facciamo, disse Momo, che sia
donata, iure successionis, vita durante, al più gran bevitore che
produca l'alta e bassa Alemagna, dove la Gola è esaltata, magnificata,
celebrata e glorificata tra le virtudi eroiche; e la Ebrietade è numerata tra
gli attributi divini: dove col treink e retreink, bibe et rebibe,
ructa reructa, cespita recespita, vomi revomi usque ad egurgitationem utriusque
iuris, idest del brodo, butargo, menestra, cervello, anima e salzicchia, videbitur
porcus porcorum in gloria Ciacchi. Vadasene con quello l'Ebrietade, la qual
non la vedete là in abito todesco con un paio di bragoni tanto grandi, che
paiono le bigoncie del mendicante abbate di santo Antonio, e con quel
braghettone che da mezzo de l'uno e l'altro si discuopre: di sorte che par che
voglia arietare il paradiso? Guardate come la va, orsa, urtando ora con questo
ora con quel fianco, mo' di proda mo' di poppa, in qualche cosa, che non è
scoglio, sasso, cespuglio, o fosso a cui non vada a pagar il fio. Scorgete con
ella gli compagni fidelissimi Replezione, Indigestione, Fumositade,
Dormitazione, Trepidazione, alias Cespitazione, Balbuzie, Blesura,
Pallore, Delirio, Rutto, Nausea, Vomito, Sporcaria ed altri seguaci, ministri e
circonstanti. E perché la non può più caminare, vedete come rimonta sul suo
carro trionfale, dove sono legati molti buoni, savii e santi personaggi de quali
li più celebri e famosi sono Noemo, Lotto, Chiaccone, Vitanzano, Zucavigna e
Sileno. L'alfiero Zampaglion porta la banda fatta di scarlato; dove con il color
di proprie penne appare di doi sturni il natural ritratto; e gionti a doi
gioghi, con bella leggiadria tirano il temone quattro superbi e gloriosi porci,
un bianco, un rosso, un vario, un negro; de quali il primo si chiama
Grungarganfestrofiel, il secondo Sorbillgramfton, il terzo Glutius, il quarto
Strafocazio.
19 Ma di questo altre volte ti dirò a
bastanza. Veggiamo che fu, dopo ch'ebbe ordinato Giove che vi succedesse
l'Abstinenza e Temperanza con gli lor ordini e ministri, che udirai: perché
adesso è tempo, che vengamo a raggionar del centauro Chirone, il qual venendo
ordinatamente a proposito, fu detto dal vecchio Saturno a Giove: - Perché, o
figlio e signor mio, vedi ch'il sole è per tramontare, ispediamo presto questi
altri quattro, s'el ti piace. - E Momo disse: - Or, che vogliamo far di
quest'uomo insertato a bestia, o di questa bestia inceppata ad uomo, in cui una
persona è fatta di due nature, e due sustanze concorreno in una ipostatica
unione? Qua due cose vegnono in unione a far una terza entità; e di questo non
è dubio alcuno. Ma in questo consiste la difficultà; cioè, se cotal terza
entità produce cosa megliore che l'una e l'altra, o d'una de le due parti,
overamente più vile. Voglio dire, se, essendo a l'essere umano aggionto
l'essere cavallino, viene prodotto un divo degno de la sedia celeste, o pur una
bestia degna di esser messa in un armento e stalla? In fine (sia stato detto
quanto si voglia da Iside, Giove ed altri dell'eccellenza de l'esser bestia, e
che a l'uomo, per esser divino, gli conviene aver de la bestia, e quando
appetisce mostrarsi altamente divo, faccia conto di farsi vedere in tal misura
bestia), mai potrò credere che, dove non è un uomo intiero e perfetto, né una
perfetta ed intiera bestia, ma un pezzo di bestia con un pezzo d'uomo, possa
esser meglio che come dove è un pezzo di braga con un pezzo di giubbone, onde
mai provegna veste meglior che giubbone o braga, né meno cossì, come questa o
quella, buona. - Momo, Momo, rispose Giove, il misterio di questa cosa è
occolto e grande, e tu non puoi capirlo; però, come cosa alta e grande, ti fia
mestiero di solamente crederlo. - So bene, disse Momo, che questa è una cosa,
che non può esser capita da me, né da chiunque ha qualche picciolo granello
d'intelletto; ma che io, che son un dio, o altro che si trova tanto sentimento
quanto esser potrebe un acino di miglio, debba crederlo, vorrei che da te prima
con qualche bella maniera mi vegna donato a credere. -Momo, disse Giove, non
devi voler sapere più di quel che bisogna sapere, e credemi, che questo non
bisogna sapere. -Ecco dunque, disse Momo, quel che è necessario intendere, e
ch'io al mio dispetto voglio sapere; e per farti piacere, o Giove, voglio
credere che una manica ed un calzone vagliono più ch'un par di maniche ed un
par di calzoni, e di gran vantaggio ancora; che un uomo non è uomo, che una
bestia non è bestia; che la metà d'un uomo non sia mezo uomo, e che la metà
d'una bestia non sia meza bestia; che un mezo uomo e meza bestia non sia uomo
imperfetto e bestia imperfetta, ma bene un divo, e pura mente colendo. -
Qua li dei sollecitarono Giove, che s'espedisse presto e determinasse del
Centauro secondo il suo volere. Però Giove, avendo comandato silenzio a Momo,
determinò in questo modo: - Abbia detto io medesimo contra Chirone qualsivoglia
proposito, al presente io mi ritratto; e dico che, per esser Chirone centauro
uomo giustissimo, che un tempo abitò nel monte Pelia, dove insegnò ad
Esculapio de medicina, ad Ercole d'astrologia e ad Achille de citara, sanando
infermi, mostrando come si montava verso le stelle, e come gli nervi sonori
s'attaccavano al legno e si maneggiavano, non mi par indegno del cielo. Appresso
ne lo giudico degnissimo, perché in questo tempio celeste, appresso questo
altare a cui assiste, non è altro sacerdote che lui; il qual vedete con quella
offrenda bestia in mano, e con un libatorio fiasco appeso a la cintura. E
perché l'altare, il fano, l'oratorio è necessariissimo, e questo sarrebe vano
senza l'administrante, però qua viva, qua rimagna e qua persevere eterno, se
non dispone altrimente il fato. - Qua suggionse Momo: - Degna e prudentemente
hai deciso, o Giove, che questo sia il sacerdote nel celeste altare e tempio;
perché, quando bene arà spesa quella bestia che tiene in mano, è impossibile
che li possa mancar mai la bestia: perché lui medesimo, ed uno, può servir per
sacrificio e sacrificatore, idest per sacerdote e per bestia. - Or bene
dunque, disse Giove, da questo luogo si parta la Bestialità, l'Ignoranza, la
Favola disutile e perniziosa; e dove è il Centauro, rimagna la Semplicità
giusta, la Favola morale. Da ove è l'Altare, si parta la Superstizione,
l'Infidelità, l'Impietà e vi soggiorne la non vana Religione, la non stolta
Fede e la vera e sincera Pietade. - Qua propose Apolline: - Che sarà di quella
Tiara? a che è destinata quella Corona? che vogliamo far di essa? - Questa,
questa, rispose Giove, è quella corona, la quale, non senza alta disposizion
del fato, non senza instinto de divino spirito e non senza merito grandissimo,
aspetta l'invittissimo Enrico terzo, Re della magnanima, potente e bellicosa
Francia; che dopo questa e quella di Polonia, si promette, come nel principio
del suo regno ha testificato, ordinando quella sua tanto celebrata impresa, a
cui, facendo corpo le due basse corone con un'altra più eminente e bella,
s'aggiongesse per anima il motto: Tertia coelo manet. Questo Re
cristianissimo, santo, religioso e puro può securamente dire: Tertia coelo
manet, perché sa molto bene che è scritto Beati li pacifici, beati li
quieti, beati li mondi di cuore, perché de loro è il regno de' cieli. Ama la
pace, conserva quanto si può in tranquillitade e devozione il suo popolo
diletto; non gli piaceno gli rumori, strepiti e fragori d'instrumenti marziali
che administrano al cieco acquisto d'instabili tirannie e prencipati de la
terra; ma tutte le giustizie e santitadi che mostrano il diritto camino al regno
eterno. Non sperino gli arditi, tempestosi e turbulenti spiriti di quei che sono
a lui suggetti, che, mentre egli vivrà (a cui la tranquillità de l'animo non
administra bellico furore), voglia porgerli aggiuto per cui non vanamente vadano
a perturbar la pace de l'altrui paesi, con pretesto d'aggionger gli altri
scettri ed altre corone; perché Tertia coelo manet. In vano contra sua
voglia andaranno le rubelle Franche copie a sollecitar gli fini e lidi altrui;
perché non sarà proposta d'instabili consegli, non sarà speranza de volubili
fortune, comodità di esterne administrazioni e suffragii che vagliano con
specie d'investirlo de manti ed ornarlo di corone, toglierli (altrimente che per
forza di necessità) la benedetta cura della tranquillità di spirito, più
tosto leberal del proprio che avido de l'altrui. Tentino, dunque, altri sopra il
vacante regno Lusitano; sieno altri solleciti sopra il Belgico dominio. Perché
vi beccarete la testa e vi lambiccarete il cervello, altri ed altri prencipati?
perché suspettarete e temerete voi altri prencipi e regi che non vegna a domar
le vostre forze, ed involarvi le proprie corone? Tertia coelo manet.
Rimagna dunque (conchiuse Giove) la Corona, aspettando colui che sarà degno del
suo magnifico possesso; e qua oltre abbia il suo solio la Vittoria,
Remunerazione, Premio, Perfezione, Onore e Gloria; le quali, se non son virtudi,
son fine di quelle.
-20 \ SAUL.\ Or che dissero li dei?
21 \ SOFIA\ Non fu grande o picciolo, maggiore
o minore, maschio o femina, o d'una e d'un'altra sorte, che si trovasse nel
conseglio, che con ogni voce e gesto non abbia sommamente approvato il
sapientissimo e giustissimo decreto Gioviale. Là onde, fatto tutto allegro e
gioioso, il summitonante s'alzò in piedi e stese la destra verso il Pesce
australe, di cui solo restava a definire, e disse: -Presto tolgasi da là quel
pesce, e non vi rimagna altro che il suo ritratto; ed esso in sustanza sia preso
dal nostro cuoco, ed or ora, fresco fresco, sia messo per compimento di nostra
cena parte in craticchia, parte in guazzetto, parte in agresto, parte acconcio
come altrimente li pare e piace, accomodato con salza romana. E facciasi tutto
presto, perché per il troppo negociare io mi muoio di fame, ed il simile credo
de voi altri anco: oltre che mi par convenevole che questo purgatorio non sia
senza qualche nostro profitto ancora. - Bene, bene, assai bene! risposero tutti
gli dei; ed ivi si trove la Salute, la Securità, l'Utilità, il Gaudio, il
Riposo e somma Voluttade, che son parturite dal premio de virtudi, e
remunerazion de studi e fatiche. -.
22 E con questo festivamente usciro dal
conclave, avendo purgato il spacio oltre il signifero, che contiene trecento e
sedeci stelle segnalate.
23 \ SAUL.\ Or ed io me ne vo alla mia cena.
24 \ SOFIA\ Ed io mi ritiro alle notturne
contemplazioni.